(Sez. III) – 4 maggio 2018, n. 10602 – Pres. Vivaldi, Est. D’Ovidio, P.M. Troncone – B.C. e B.A. (avv. Stoppani, Eordegh) c. Zurich Insurance Public Limited Company (Avv. Nerli, Cattaneo).
(Sentenza impugnata: App. Milano 24 febbraio 2016)
L’assicurazione contro l’invalidità permanente da malattia – al pari di quella per l’infortunio non mortale – rientra nell’ambito dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, è soggetta al principio indennitario, in virtù del quale l’indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito (1).
La stipula di due polizze, anche con la medesima compagnia a copertura del rischio di malattia, prive di collegamento negoziale ovvero di previsioni in ordine alla loro cumulabilità, costituisce un’ipotesi di assicurazione plurima ex art. 1910 c.c., sicché, in forza del principio indennitario, l’indennizzo complessivamente dovuto all’assicurato non può quantificarsi in misura pari alla sommatoria degli importi assicurati con le due polizze, ma deve necessariamente corrispondere al danno effettivo, da individuarsi nella misura predeterminata dalla polizza che assicura l’importo maggiore (2).
1. Il caso - 2. Le questioni: la natura dell’assicurazione contro le malattie - 3. Assicurazione di persone, assicurazione di somme e polizza stimata - 4. Segue. Disciplina operativa - 5. Pluralità di polizze per il medesimo rischio - 6. La corrispondenza del valore stimato all'effettivo danno patito. Criteri di accertamento - NOTE
A seguito della stipula di due polizze assicurative per il rischio invalidità permanente da malattia con due diverse compagnie assicuratrici – la prima, nel 1993, per il valore convenzionalmente predeterminato di 206.582,76 euro (L. 400.000,00); la seconda, nel 2005, per il valore convenzionalmente predeterminato di 300.000 euro – l’assicurato citò in giudizio l’assicuratore della seconda polizza, al quale successivamente era stata ceduta anche la prima, chiedendo il pagamento del relativo indennizzo. Il tribunale, accertata l’operatività della seconda polizza e l’avvenuta riscossione della prima, negò la possibilità di cumulo e condannò la compagnia assicuratrice a corrispondere agli eredi dell’assicurato (nel frattempo deceduto) la somma pari alla differenza tra l’importo assicurato dalla seconda polizza e quello già riscosso in virtù della prima. La decisione, impugnata degli eredi, venne confermata in appello. Gli eredi ricorsero, quindi, per cassazione sulla base di motivi diversi ma connessi, in quanto tutti diretti a escludere l’applicabilità al caso di specie delle norme – espressione del principio indennitario – dettate in tema assicurazione contro i danni (e segnatamente gli artt. 1905, 1909, 1910 c.c.). In sintesi i ricorrenti prospettarono: l’assenza di criteri oggettivi per valutare il “bene” nella specie assicurato; la possibilità che la seconda polizza costituisse un adeguamento della prima, e non una soprassicurazione; l’assimilabilità dell’assicurazione contro le malattie non già all’ipotesi dell’assicurazioni contro i danni, bensì a quella degli infortuni con esiti mortali, per la quale non opera il principio indennitario. La S.C. ha ritenuto infondati tutti i motivi, rilevando la riconducibilità della polizza in oggetto al ramo danni, la sua soggezione al principio indennitario, la possibilità di quantificare il valore del bene assicurato, e altresì escludendo che la seconda polizza costituisse un “aggiornamento” della prima “svincolato” da qualsiasi riferimento al principio indennitario. Quindi ha rigettato il ricorso.
L’ordinanza in commento si segnala per la pluralità e la peculiarità delle questioni trattate. I principi in essa affermati, che si pongono in una relazione di conseguenza logica, possono essere così individuati: a) l’assimilabilità dell’assicurazione contro le malattie all’assicurazione contro gli infortuni non mortali; b) la sua qualificazione come assicurazione contro i danni; c) la sua assoggettabilità al principio – inderogabile dalla volontà delle parti – indennitario; d) la sua riconducibilità alla polizza stimata di cui all’art. 1908, comma 2, c.c.; e) la necessità, in presenza di polizze plurime, di fare riferimento all’importo più elevato convenzionalmente predeterminato al fine di accertare il danno effettivamente patito e, dunque, la stima corretta. La pronuncia, lo si anticipa già, appare condivisibile per molti aspetti, ma non tutti. In particolare, è la questione indicata sub e) – corrispondente al punto 5.5. della motivazione – a destare le perplessità maggiori. Cominciando dalla natura del contratto di assicurazione contro le malattie, la S.C. afferma la sua piena assimibilità all’invalidità conseguente ad infortunio non mortale, a nulla rilevando l’unica differenza tra di esse riscontrabile, e cioè che nella prima il danno è riconducibile ad un evento che trova la sua fonte in un processo morboso “interno” alla persona, mentre nella seconda in un fattore causale “esterno” alla stessa. Del resto, la tendenziale uniformità delle due species emerge anche sul piano lessicale, essendo entrambe ascritte alla categoria delle «assicurazioni della salute» [1]. Ciò posto, la S.C. ribadisce i principi sanciti dalle Sezioni Unite sin dal 2002: diversamente dall’ipotesi dell’assicurazione contro gli infortuni con eventi mortali, assimiliata all’assicurazione sulla vita, l’assicurazione contro gli infortuni con eventi invalidanti ha natura e funzione indennitaria in virtù della sua riconducibilità all’assicurazioni contro i danni, la quale «non è solo assicurazione di cose o patrimoni, ma è suscettiva di ricomprendere anche i danni subiti dalla persona [continua ..]
Il suddetto passaggio (punto 5.4) induce a interrogarsi se l’assicurazione di persone sia da qualificare sempre e comunque come polizza stimata – come sembra ritenere la S.C. – oppure se questa costituisca solo una sua modalità possibile e, anzi, normale. Come noto, alla stima preventiva concordata del valore assicurabile si ricorre diffusamente per beni di valore ingente ovvero di difficile quantificazione, come ad esempio accade nell’assicurazione marittima, o di opere d’arte o, appunto, di persone, non essendo l’uomo ancorabile a un valore di mercato[5]. In tali casi, i contraenti, per evitare incertezze presenti (nella determinazione del premio) e contestazioni future (nella quantificazione del danno) fissano consensualmente la somma da corrispondersi in caso di sinistro. In particolare, nella prassi assicurativa il valore del rischio contro invalidità per infortunio o malattia viene stabilito in misura forfettaria, richiamando le tabelle Ania e/o Inail, ed è valutato come “perdita della capacità allo svolgimento di qualsiasi lavoro proficuo”[6]. Questa prassi sembrerebbe atteggiarsi come un’“assicurazione di somme”, insensibile al danno realmente sofferto: in effetti, assai di rado le compagnie contestano la congruità della somma assicurata, che peraltro, in quanto liberamente determinata dalle parti, potrebbe anche essere di ammontare elevatissimo. La determinazione convenzionale del valore del bene assicurato assolverebbe, quindi, a un duplice scopo pratico: essa è strumentale non solo ai fini della determinazione del premio, ma anche ai fini dell’eventuale liquidazione dell’indennizzo. Tornando al quesito se la polizza infortuni/malattie sia da considerare sempre e comunque come polizza stimata, in linea di principio la risposta pare negativa: l’indicazione convenzionale della somma assicurata nel contratto non fa di questo una polizza stimata in virtù della netta differenza esistente fra “valore assicurabile” e “somma assicurata”. Quest’ultima, infatti, rappresenta solo il limite massimo convenzionale della prestazione dell’assicuratore, ma non costituisce oggetto del contratto, che resterebbe valido ed efficace anche in assenza di tale indicazione[7]. Dunque, l’assicuratore non è obbligato al pagamento della somma indicata, bensì eventualmente a [continua ..]
In considerazione di quanto detto, è necessario verificare, da un lato, se anche una polizza “non stimata” possa essere invocata dall’assicurato come prova del valore assicurabile; dall’altro, se e come un’eventuale polizza “stimata” possa essere contestata dall’assicuratore e, quindi, coordinarsi con il principio indennitario. In relazione alla prima questione, non c’è dubbio che la polizza che contenga una valutazione solo “dichiarata” del bene assicurato, non è affatto vincolante ai fini della determinazione del danno (e dell’indennizzo dovuto), soggiacendo pienamente al principio indennitario. Cosicché, se superiore al danno reale o al valore delle cose al momento del sinistro, l’importo dell’indennizzo potrà essere a questo ridotto. Ciò nonostante, non pare azzardato riconoscere una rilevanza anche alla dichiarazione di valore, la quale, pur non assurgendo a stima, potrebbe costituire un elemento di cui tener conto per presumere un’assicurazione piena, così precludendo l’applicazione della regola proporzionale dettata dell’art. 1907 c.c. per la sottoassicurazione. Per quanto riguarda la seconda questione, che evidentemente pone un tema più ampio, concernente i confini dell’autonomia privata, la risposta non può prescindere dalla riconducibilità dell’assicurazione di persone al genus dell’assicurazione contro i danni e dalla logica inderogabile che lo governa. Se, infatti, sono questi i principi – contestati dalla dottrina ma ormai – fissati dalla nostra giurisprudenza, non può non tenersene coerentemente conto anche nell’interpretazione da adottare in tema polizza stimata ex art. 1908, comma 2, c.c. Come detto, la stima concordata è strumentale non solo ai fini della determinazione del premio, ma anche ai fini della quantificazione del danno, perché così le parti stabiliscono. Ciò, tuttavia, non significa – come sostenuto, se pur con varie sfumature, in dottrina – che la valutazione espressa nella somma assicurata non esaurisce il valore assicurabile, sicché mai l’assicuratore potrebbe eccepire l’eccessività dell’indennizzo rispetto all’entità effettiva del danno verificatosi [8]. Detto altrimenti: anche il ricorso [continua ..]
Nel caso di specie, come detto, il medesimo assicurato aveva stipulato due polizze per il rischio invalidità permanente da malattia in epoche diverse, per una somma assicurata diversa e con due diverse compagnie assicuratrici. Alla seconda compagnia era stata successivamente ceduta la prima polizza, sicché non ricorreva l’ipotesi della pluralità di assicurazioni presso diversi assicuratori di cui all’art. 1910 c.c. Al riguardo, la Corte, confermando la decisione d’appello, precisa che ciò è irrilevante ai fini del ragionamento, giacché il principio indennitario, causa del contratto di assicurazione, ha natura di ordine pubblico: esso permea e governa l’insieme di regole contenute nel tessuto dell’assicurazione contro i danni, a prescindere dalla norma specifica applicabile al caso concreto [21]. Peraltro nella specie, essendo lo stesso rischio dedotto in due polizze, ricorreva sicuramente un’ipotesi di assicurazione plurima, per la cui configurabilità rilevano due elementi: l’identità del rischio assicurato (stesso bene, stesso interesse, stesso periodo di tempo) e l’identità di colui che beneficia della garanzia, mentre non rileva l’identità dei contraenti [22]. Ciò posto, la S.C. afferma che «in assenza di un collegamento negoziale tra le dette polizze esplicitato nel testo negoziale, ovvero di una qualsivoglia previsione in ordine alla loro cumulabilità (…), correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto che si versi in una ipotesi di esistenza di due assicurazioni relative al medesimo rischio, con quantificazione predeterminata del danno e conseguente operatività del principio indennitario» (punto 5.5). Invero, l’affermazione suscita una prima perplessità non tanto nella conclusione, quanto nelle premesse, non sembrando affatto risolutiva, e anzi inconferente ai fini della soluzione della questione, la rilevata «assenza di un collegamento negoziale tra le dette polizze esplicitato nel testo negoziale, ovvero di una qualsivoglia previsione in ordine alla loro cumulabilità». Ciò in quanto delle due l’una: o si applica il principio indennitario perché l’assicurazione in esame è assicurazione danni, e allora anche in presenza di tali circostanze contrattuali il [continua ..]
Le considerazioni fin qui svolte portano sempre al centro la medesima questione: l’accertamento del valore «reale» o «al tempo del sinistro» del bene assicurato. Tanto l’art. 1908, comma 1, quanto gli artt. 1909 e 1910, comma 3, c.c. presuppongono infatti un obbligo di accertamento, essendo evidente che, in assenza di un confronto fra i due valori (quello assicurato e quello reale), non è possibile sapere se si verta in un’ipotesi di assicurazione piena, o di sottoassicurazione o, ancora, di soprassicurazione, incorrendosi in quest’ultimo caso nella violazione del principio indennitario [24]. In caso di contestazione, dunque, l’accertamento del valore reale – ossia dell’entità del danno effettivamente subito – può e dev’essere compiuto dal giudice. Rimane però il dubbio su accennato: quale deve considerarsi il valore reale se il bene non è una cosa ma la salute? Quali i criteri di accertamento corretti? L’aspetto meno convincente, se non errato, della pronuncia in esame – peraltro apparentemente riscontrabile anche nelle decisioni dei precedenti gradi di giudizio – riguarda proprio questo punto: essa individua il valore reale nell’importo più elevato convenzionalmente predeterminato, senza spiegarne adeguatamente la ragione, ma apoditticamente affermando che tale valore deve «necessariamente» corrispondere a quello maggiore. La soluzione sembra motivata solo dall’assenza di un collegamento tra le due polizze o di una previsione circa il loro cumulo, ma – come rilevato – l’argomento è insufficiente a sostenerla. Perché il danno effettivamente patito deve corrispondere all’importo maggiore convenzionalmente stimato, e non invece a quello minore? Perché escludere che possa corrispondere al cumulo dei due importi? O, ancora, che non corrisponda a nessuno dei due? Non è dato saperlo leggendo l’ordinanza, perché manca l’indicazione del criterio adottato ai fini dell’accertamento del danno, e anzi: manca l’accertamento stesso dell’entità del danno, che costituiva il termine necessario con il quale confrontare la stima. Vero è che nessuna norma offre indicazioni al riguardo e che il “bene” in questione non ha un valore di mercato, ma è [continua ..]