Il discorso sulla Brexit e sui suoi effetti nel mondo dell’assicurazione e della finanza appare a tutt’oggi pieno di incognite. Il riconoscimento fatto dal Trattato di Lisbona a favore degli Stati membri del diritto di recedere dall’Unione Europea rischia di aprire voragini sull’esito del negoziato e quindi sull’accordo per stabilire i nuovi assetti tra gli Stati. Occorrerà molta attenzione nell’interesse del mercato di Londra, che è un mercato leader per l’assicurazione e la finanza in Europa, e dei singoli mercati europei, tra cui quello italiano, che dal mercato di Londra chiaramente dipendono.
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1. Anteprima di incognite - 2. Quadro giuridico di riferimento - 3. Unione Europea, mercato finanziario e specializzazione - 4. Rispetto delle procedure come garanzia di risultato - 5. Schermaglie parlamentari - 6. Orientamenti e modalità del negoziato per un recesso consensuale - 7. Vecchie e nuove alleanze - 8. Un negoziato difficile - 9. Le incognite di un recesso senza accordo - post scriptum
La materia dei servizi assicurativi e finanziari forma oggetto di una delle quattro libertà istituite dai Trattati europei e rappresenta nel c.d. mercato di Londra un settore di assoluta eccellenza per almeno tre aspetti: per l’alta qualità tecnologica dei prodotti e la professionalità degli addetti, per l’elevato livello di capitalizzazione del settore, per l’espansione globale della sua influenza. La Brexit, se non attentamente modulata, può colpire pesantemente tale mercato e di conseguenza i mercati europei, che di fatto da esso dipendono. Con la cessazione, dopo due anni dalla notifica del recesso, dell’applicabilità al mercato britannico delle libertà contrattuali previste dai Trattati europei, potrebbero riemergere misure protezioniste protezionistiche nazionali, i cui effetti restrittivi si sentiranno su entrambi i lati della sequenza negoziale, quello dei fornitori dei servizi a Londra e quello degli utilizzatori dei servizi stessi in Europa continentale, nonché sui numerosi operatori di Paesi terzi, che oggi possono, grazie al c.d. “passaporto europeo”, fornire servizi dai loro stabilimenti londinesi a clienti residenti in ogni parte d’Europa (e del mondo). Ciò premesso, possiamo affrontare il nostro tema. Sull’esercizio del diritto di recesso di uno Stato membro dall’Unione Europea, introdotto, a partire dal 1° febbraio 2009, dall’art. 50 del Trattato di Lisbona, non esistono precedenti. Oggi si viaggia in terra incognita. Era dunque da prevedere che, dopo la enfatizzata vittoria dell’opzione “leave”, emotivamente votata dal popolo britannico nel referendum del 23 giugno 2016, l’effettiva attuazione della Brexit non sarebbe stata una passeggiata. Ora, passato il momento, secondo i casi, dell’euforia o della delusione, la complessità politica (oneri procedurali) ed economica (emersione di costi) dell’operazione comincia ad apparire. Negli ultimi tempi i media hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica europea su alcuni segnali contrastanti relativi alla Brexit. Alcuni di carattere generale: elogio della globalità dei mercati (da parte del Lord Mayor di Londra), contrarietà britanniche al pagamento dei costi dell’operazione (calcolati da ambienti comunitari in 60 miliardi di euro), malumori e minacce di [continua ..]
A questo punto sembra opportuno chiarire la situazione giuridica di riferimento. L’art. 50, par. 1, del Trattato di Lisbona (di modifica dei precedenti Trattati europei) ha introdotto il principio secondo il quale “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”, alle condizioni di cui ai successivi parr. 2, 3 e 4, il par. 5 riguarda un improbabile reingresso. Il recesso è il diritto unilaterale potestativo attribuito dal Trattato ad ogni Stato membro di sciogliersi, secondo modalità normalmente concordate, dai vincoli dell’Unione Europea. Recedere dall’Unione vuol dire uscire da un’organizzazione complessa di Stati, a formazione progressiva, che si costituisce mediante sottoscrizione e ratifica del Trattato principale nonché eventualmente di Trattati successivi di settore, disposti a grappolo e dipendenti dal Trattato capostipite, anche esso soggetto a successione nel tempo (CEE, CE, UE, FUE), di modo che il recesso dal Trattato principale comporta l’uscita dai Trattati settoriali derivati (es. Schengen, Maastricht, Amsterdam, Nizza, UEM, Lisbona, ecc.). Se dunque uno Stato recede dall’Unione, esso esce, oltre che dal Trattato principale, anche da tutti i Trattati allo stesso coordinati e dallo stesso derivati, eventualmente sottoscritti. Ma non sembra vero il contrario. Per uscire da un Trattato derivato (es. UEM), l’ordinamento comunitario non offre una via di recesso. O si esce da tutto, a cominciare dal Trattato principale, o si resta irrevocabilmente nel sistema (come ha ripetutamente affermato Mario Draghi in dichiarazioni ufficiali). In altri termini, non è dato recedere scegliendo fior da fiore. Richiedendo di uscire dall’Unione Europea, il Regno Unito ha implicitamente accettato di uscire da tutti i settori di mercato liberalizzati, sopportando i relativi costi di uscita, e quindi anche dal mercato finanziario di assicurazioni e banche, centralizzato principalmente nella piazza di Londra, dove da tutta Europa (e dal mondo intero) giungono imponenti flussi di capitali di investimento, sicuramente favoriti, oltre che da condizioni obiettive di mercato, dalle liberalizzazioni introdotte dai Trattati europei. Rinunciando all’Unione, il Regno Unito mostra d’altra parte di essere disposto a gettare via i vantaggi delle liberalizzazioni garantite dall’Europa, in cambio, [continua ..]
Conformemente all’istituto privatistico, anche il recesso di diritto pubblico internazionale è un atto negoziale unilaterale recettizio (da notificare appunto a un destinatario indicato nel Consiglio europeo), mediante il quale un soggetto pubblico (nella specie uno Stato membro) esercita il diritto potestativo di sciogliersi da un vincolo contrattuale (nella specie, dal TFUE). Con l’uscita del Regno Unito il numero degli Stati membri dell’Unione Europea scende a 27. Nessuna variazione si produce invece nelle adesioni all’Unione monetaria, il cui numero resta fissato in 19 Stati (cioè tutti quelli che hanno, ciascuno a suo tempo, sottoscritto lo specifico Trattato UEM). L’organizzazione multilaterale europea, su base convenzionale, dei 28 Stati può configurarsi come rappresentata da cerchi concentrici: uno più largo ed esterno, che comprende la generalità degli Stati membri dell’Unione Europea; gli altri più piccoli ed interni, relativi alle varie politiche armonizzatrici dell’Unione, ad adesione libera da parte degli Stati del primo cerchio (il che introduce già il concetto di cooperazione a velocità differenziata). Uno dei cerchi minori ed interni è specifico per le politiche monetarie dell’Eurozona. Gli Stati possono su base volontaria e nel rispetto di precise condizioni, ottenere di aderire, oltre che al Trattato principale, con la cui sottoscrizione diventano membri dell’Unione, anche a uno o a più o a tutti i Trattati-Corollari di quello principale. Se uno Stato aderisce al Trattato generale (TFUE), derivante dal vecchio Trattato CEE del 1957 (basato essenzialmente sulle politiche economiche e sulle libertà degli scambi), come ha fatto tra gli altri il Regno Unito nel 1973, può astenersi, sulla base di proprie valutazione di interesse, dall’aderire anche ad altri Trattati di settore (come quello del 1999 sulla moneta unica, euro, al quale il Regno Unito si è appunto tenuto estraneo). Si può allora confermare che l’entrata nel sistema dell’euro costituisce per i Paesi già membri dell’Unione Europea atto volontario non revocabile, con tutte le conseguenze che da questo principio discendono. Tra cui la perdita di sovranità monetaria. Certamente l’adesione alle unioni monetarie, e dunque anche l’adesione al sistema dell’euro, comporta [continua ..]
Storicamente i fatti sono i seguenti. Il Regno Unito è entrato nell’Unione Europea nel 1973, con sedici anni di ritardo rispetto alla data di adesione degli Stati fondatori. Ha rinunciato ad entrare nell’Eurozona e, dopo quarantatré anni di esperienze, evidentemente non soddisfacenti rispetto alle aspettative, ha deciso di recedere dall’Unione stessa. Popolo, Parlamento e Governo britannici hanno espresso la volontà (ma con importanti opposizioni interne) di uscire dall’Unione Europea, avvalendosi del diritto di recesso riconosciuto dall’art. 50 del Trattato di Lisbona. Da parte italiana si è levata qualche voce per auspicare che la trattativa e l’accordo che seguirà non siano “distruttivi”. Altre voci sono state peraltro meno accomodanti. Ma è difficile credere che quando un tessuto, fatto di intense relazioni plurilaterali e pluriannuali, costituite tra una comunità di Stati e di cittadini si strappa e viene magari sostituito con una rete di rapporti bilaterali diversi, nei quali è il più forte che vince, non si modifichino equilibri e non si pregiudichino interessi; qualcosa, anche di importante, si rompe sempre. Certo, grazie al Trattato di Lisbona, che prevede una procedura di uscita negoziata (art. 50, n. 2), il distacco di uno Stato può essere meno traumatico rispetto a lacerazioni profonde che si sarebbero verificate nell’ambito di altri Trattati, per i quali l’uscita regolamentata e negoziata non è prevista. In questo caso, la volontà di uscita di uno Stato, in mancanza di procedure appropriate, darebbe luogo a complicate situazioni di conflitto. Tutto sarebbe più complicato e si correrebbe il rischio di provocare un’implosione generale del sistema. Il Trattato di Lisbona si segnala dunque per aver stabilito un punto di diritto sostanziale: il riconoscimento del diritto per ciascuno Stato membro di recedere convenzionalmente dall’Unione Europea. Per la stabilità dell’ordinamento e per l’eccezionalità dell’evento, si richiede che l’esercizio del diritto di recesso sia assistito da alcune cautele procedurali di complessa esecuzione e tali da indurre i Governi a una meditata riflessione circa l’importanza del passo da compiere. In questo senso vanno considerate le disposizioni contenute nell’art. 50 cit. circa [continua ..]
Il caso britannico è emblematico, perché senza precedenti e perché può servire da precedente per il futuro. L’osservazione va fatta soprattutto in riferimento a Londra. Qui funziona il più grande mercato europeo di servizi finanziari. Qui si svolgono i più qualificati incontri d’affari e si presentano da tutto il mondo le nuove iniziative di investimento. Qui hanno sede studi legali famosi e la regola di vita è scandita dall’ansia del “business is business”. A Londra si vedono i Palazzi e, nei dintorni, i Castelli della più antica Monarchia d’Europa, e possono convivere democrazia e nobiltà, tradizioni e modernità: e qui l’Europa è riuscita ad aprire e sviluppare, superando otto secoli di storia, il confronto tra Magna Carta del 1215 e Trattati europei degli anni 2000. Dopo il referendum favorevole al “leave”, del 23 giugno 2016, la Corte Suprema britannica ha richiesto per rispetto della democrazia costituzionale interna l’intervento del Parlamento per attivare la procedura dell’art. 50 del Trattato di Lisbona, ben conoscendo le difficoltà cui si sarebbe potuto andare incontro nella ricerca di una maggioranza parlamentate. In effetti, le maggioranze che possono formarsi nelle due Camere del Parlamento britannico dipendono da due importanti fattori: quello politico (come in tutti i Parlamenti) e quello geografico (peculiare degli Stati a struttura composita o unionista). Politicamente i due maggiori partiti che dividono il Parlamento britannico sono, come è noto, il Conservative Party (tendenzialmente favorevole al “leave”) e il Labour Party (tendenzialmente favorevole al “remain”). Geograficamente, il Parlamento conta membri provenienti (eletti o designati a titolo ereditario e nominati) da Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord (ugualmente divisi tra “leave “ e “remain”). La ricerca di una maggioranza su un tema altamente divisivo quale l’uscita politica e commerciale dall’Europa non si presentava dunque agevole (ed infatti sussulti si sono avvertiti). Nella realtà però le cose sono alla fine andate più facilmente del previsto. L’allineamento parlamentare sul “leave” (con qualche malumore dei Lords) ha in questa prima fase nettamente superato la percentuale registrata nel [continua ..]
Il Consiglio europeo, che delibererà, come voluto dai Trattati, in una composizione ristretta a 27 delegazioni governative, una meno del plenum abituale (senza cioè la delegazione del Regno Unito, quale controparte che ha chiesto di recedere), dovrà formulare, secondo il citato art. 50, i propri orientamenti sul caso. Ad oggi il Consiglio ha soltanto fatto sapere che non intende aprire il negoziato se prima il Regno Unito non avrà accettato di saldare tutte le sue posizioni debitorie nei confronti dell’Unione. Sulla base degli attesi orientamenti e “tenendo conto del quadro delle future relazioni” (art. 50 cit.), tra l’Unione stessa e lo Stato interessato al recesso si aprirà un negoziato in vista di pervenire ad un accordo “vòlto a definire le modalità del recesso”, che dovrà naturalmente riguardare tutti i settori delle politiche operative, economiche, commerciali, finanziarie, ma anche tutti gli aspetti umani, culturali, relazionali, ai cui sviluppi lo Stato recedente vuole porre fine. L’accordo dovrà anche determinare gli importi (dare e avere) facenti capo allo Stato recedente per definire i rapporti pendenti con l’Unione. Sarà questa verosimilmente la questione più dura da risolvere nel negoziato. Poi occorrerà occuparsi degli assetti futuri da stabilire nelle relazioni tra Regno Unito e il resto dell’Unione Europea, tenendo presente che tali nuovi assetti dovranno essere stabiliti su basi unitarie, per contenuti (trattativa globale relativa alle quattro libertà previste dai Trattati) e per soggetti (trattamento globale per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea), ad esclusione di qualsiasi intesa bilaterale ed individuale: il Regno Unito dovrà trattare con il “blocco Europa” e non già Stato per Stato. Se sarà rispettato il termine ordinatorio dei due anni, che può essere anticipato se l’accordo tra lo Stato recedente e l’Unione si conclude prima del biennio o può essere persino prorogato, in caso di difficoltà che ritardino la conclusione dell’accordo stesso, la Brexit potrebbe prendere effetto a partire dalla primavera 2019, poiché la proroga riguarderebbe soltanto l’accordo e non già l’entrata in vigore del recesso, che comunque è effettivo alla fine del biennio. Dalla [continua ..]
Riteniamo utile richiamare alcuni passaggi essenziali. La notifica dell’atto di recesso dall’Unione Europea da parte del Governo britannico al Consiglio europeo è stata effettuata il 29 marzo 2017. Tale notifica costituisce, come prevede l’art. 50, n. 2, del Trattato di Lisbona, il primo atto ufficiale del procedimento di recesso del Regno Unito (primo Stato membro che intraprende questa strada) dal sistema di integrazione economica europea. Dalla data della notifica è iniziato a decorrere il periodo di due anni previsto dall’art. 50, n. 3, per portare a termine il negoziato e possibilmente concludere un accordo tra le due parti, il Regno Unito come soggetto recedente e l’Unione Europea nella nuova composizione a 27 Stati come soggetto nei cui confronti il recesso viene esercitato. L’accordo che dovrebbe risultare dal negoziato indicherà le modalità con cui verranno regolati i rapporti già sorti o insorgenti tra le due parti. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e il conseguente scioglimento del vincolo di partnership con i restanti Stati membri dell’Unione, indurrà tale Stato a crearsi una sfera di Stati amici con i quali stipulare nuove condizioni di cooperazione e annodare rapporti di alleanza commerciale. Nel mondo attuale, infatti, non è più concepibile lavorare all’interno di un solo mercato nazionale. Il principio di globalità ha ormai invaso tutto: dalle comunicazioni del pensiero agli scambi economici, dall’innovazione tecnologica alla ricerca scientifica. È l’idea del futuro, ma è anche un ritorno al passato: al concetto della terra degli uomini, alle grandi migrazioni (che non sono soltanto degli uomini: si pensi agli uccelli, ai pesci e ad altri animali), alle carovane che attraversavano deserti, steppe e praterie per fuggire guerre e carestie, alla ricerca di luoghi e condizioni migliori di vita e di lavoro, o alle imbarcazioni che solcavano mari per incrementare commerci e conoscenze. Anche per il successo nella finanza e nel commercio occorre dunque allargare i propri confini naturali di mercato. Secondo le previsioni più accreditate, la scelta degli operatori britannici nella ricerca dei nuovi partners per alleanze a carattere bilaterale potrà orientarsi verso le seguenti direzioni, alternative o cumulative: a) verso i Paesi dell’ex [continua ..]
Abbiamo potuto constatare in questi ultimi mesi che i luoghi del potere politico a Londra comunicano intensamente tra loro: il Popolo propone col referendum, Downing Street chiama, Buckingham Palace risponde, Westminster, tirato in causa dalla Corte Suprema, approva. Analogo schema si ripete per le prossime elezioni anticipate. Non si sono peraltro sentite in questa prima fase le voci del potere economico, né della finanza (Bank of England), né dell’assicurazione (ABI e Lloyd’s), né dei sindacati. Ma la macchina procede. Ora il Consiglio europeo dovrebbe comunicare i propri orientamenti e, in virtù del rinvio all’art. 218, n. 3, del TFUE, sulla cui base è previsto l’inizio dei lavori tra i negoziatori designati rispettivamente dal Governo britannico e dal Consiglio europeo a 27, per l’elaborazione e la conclusione dell’accordo tra le due parti. È possibile che per i negoziati la durata di due anni, durante i quali il Regno Unito dovrà continuare a rispettare tutti gli obblighi previsti dai Trattati, sia sufficiente. A decorrere però dalla data di entrata in vigore dell’accordo o, in mancanza, al termine dei due anni, i Trattati europei cesseranno di essere applicati al Regno Unito (art. 50, n. 3). Un problema serio, che non sembra risolto dalla normativa, si pone se il negoziato fallisce e se i negoziatori non riescono a concludere l’accordo. L’art. 218, n. 3, del TFUE non aiuta a risolvere il caso. Potrebbero però aiutare i paragrafi dello stesso articolo successivi al n. 3. Il par. 4 prevede la possibilità per il Consiglio di nominare un comitato di negoziatori con lo scopo evidente di aumentarne l’efficienza e il par. 5 attribuisce al Consiglio il potere di adottare una decisione che autorizza la firma dell’accordo ed eventualmente la sua applicazione provvisoria prima dell’entrata in vigore. Il par. 6, infine, conferisce al Consiglio la decisione finale di conclusione dell’accordo, previa eventualmente, lett. a) e b) del suddetto paragrafo, approvazione o consultazione del Parlamento europeo (in particolare se l’accordo produce “ripercussioni finanziarie considerevoli per l’Unione”). Ma occorre ricordare che i parr. 4, 5, 6 dell’art. 218 non sono compresi nel rinvio operato, per il solo par. 3, dall’art. 50 del Trattato di Lisbona e non sarebbero [continua ..]
Si può immaginare che durante i negoziati la posizione britannica apparirà, rispetto a quella dei Paesi europei che si annuncia variegata, più coerente e quindi più facile da difendere. A titolo di esempio, il Regno Unito molto probabilmente si schiererà senza tentennamenti a favore della soppressione di ogni libertà in materia di circolazione di persone e lavoratori, mentre sosterrà il mantenimento dello “status quo” liberale in materia di circolazione delle imprese, dei servizi e dei capitali. Su questo punto da parte europea non si prevede un’opposizione monolitica; si preferirà trattare. E così su molti altri punti. Torna opportuno allora ricordare l’auspicio espresso dal premier italiano: evitare che la Brexit produca effetti “distruttivi” degli equilibri raggiunti nelle relazioni europee. Nell’auspicio si legge implicitamente il riconoscimento della funzione sociale svolta in Europa dal mercato di Londra: ampiezza e idoneità di coperture assicurative e riassicurative di grandi rischi industriali e commerciali, di grandi opere, di catastrofi naturali o prodotte dall’uomo, di trasporti, di inquinamento dell’ambiente; efficace gestione di capitali internazionali per il finanziamento di opere pubbliche importanti; cooperazioni operative tra primarie istituzioni finanziarie del mondo. Sono tutte operazioni di rilievo, accompagnate dalla fiducia generale, che fuori da Londra non troverebbero comparabile attuazione. È stato calcolato che, solo per premi e indennizzi assicurativi, Londra muove circa 200 miliardi di sterline all’anno. Per depositi di capitali e transazioni finanziarie il calcolo è più difficile, ma si può dire che la raccolta può verosimilmente raggiungere anche multipli di tale cifra. Occorre ricordare ancora una volta che le operazioni riconducibili a Londra possono svolgersi anche al di fuori dei canali tracciati dall’Unione Europea; ci riferiamo alle già menzionate organizzazioni interstatali di cooperazione economica e di libero scambio commerciale (OECD, WTO, ecc.), alle quali tutti i maggiori Stati continuano ad aderire e dalle quali scaturiscono sistemi di libertà commerciali e tariffarie, di cui i futuri negoziatori europei dovranno tenere conto. Perché le attività transfrontaliere, compiute in conformità [continua ..]