Una sentenza della III Sezione della Corte di Cassazione civile ha stabilito che il danno non patrimoniale è costituito non soltanto dalle conseguenze psicologiche, affettive, sociali, esistenziali, ecc. subìte dalla vittima di un sinistro o dai suoi congiunti, ma anche dalla perdita della vita, considerata in sé, indipendentemente dai modi nei quali avviene il decesso. Questo danno deve essere risarcito indipendentemente dai risarcimenti riconosciuti per le altre voci del danno non patrimoniale e il risarcimento entra nel patrimonio ereditabile del defunto, anche se esso non può entrare formalmente nel patrimonio della vittima, che deve essere morta per essere risarcita. Si discute l’assunzione del collegio giudicante che la vita sia, più che un diritto, un bene, anzi la somma di tutti i beni, e si esplorano i modi nei quali la sentenza si dispone rispetto al diritto costituzionale e alla giurisprudenza corrente e quanto debba alle idee di vita e di morte presenti nel “sentire comune” e nel dibattito bioetico contemporaneo.
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1. Delitti e danni - 2. Il danno non patrimoniale - 3. L'introvabile diritto alla vita - 4. Il difficile diritto alla vita - 5. La vita come bene - 6. Il comune sentire sulla vita - 7. I casi della vita - NOTE
I filosofi hanno un’idea generica del diritto, modellata su una certa immagine del diritto penale, inteso come un sistema di leggi che applicano sanzioni a comportamenti. Specialmente se appartengono alla cultura europea continentale, essi hanno in mente il diritto romano, non quale era, ma quale appare nell’immagine costruita dai filosofi e dai giuristi medievali ed ereditata dai giusnaturalisti, un’immagine modellata sull’idea di legge divina, trasmessa dalla cultura biblica. E così nel diritto si è visto lo strumento per punire i grandi misfatti, come l’uccisione, il furto, la menzogna o l’infrazione dei tabù familiari e sessuali. La maggior parte delle persone non vive queste vicende, né incontra effettivamente il diritto nei Tribunali: sui cittadini di solito il diritto agisce in modo indiretto, contribuendo a formare comportamenti che evitino il ricorso a giudici e avvocati. Si è così formata l’idea che intorno ai comportamenti quali le persone se li immaginano, organizzati in vista di scopi, ci siano eventi accidentali, che non stanno nel nucleo dei comportamenti progettati e che tuttavia non si possono evitare del tutto, o non si fa tutto il possibile per evitarli. Nel costruire i propri comportamenti le persone cercano di evitare l’incontro con le istituzioni giudiziarie, mentre può accadere che proprio gli aspetti accidentali delle loro azioni li facciano incontrare con giudici e avvocati. Anche nelle zone periferiche dei comportamenti le persone possono prendere misure per ridurre gli esiti casuali, che tuttavia non sono evitabili del tutto o che sarebbe troppo costoso ridurre oltre un certo limite. Tuttavia anche in questo caso si cerca di “attutire” l’incontro con le istituzioni giudiziarie, e lo si fa stipulando assicurazioni. Salvo per qualche rappresentante del pragmatismo americano, i filosofi hanno prestato poca attenzione alla presenza delle assicurazioni nell’esperienza sociale, proprio perché esse sembrano riferirsi agli aspetti marginali del comportamento umano. Ma proprio la considerazione dei comportamenti sotto il profilo della loro assicurabilità mette in luce quanto nelle condotte umane contino le valutazioni di probabilità e di costi e come esse si costruiscano attraverso il confronto tra costi alternativi, per esempio esaminando il [continua ..]
Sul danno non patrimoniale è recentemente intervenuta la III Sezione della Corte di Cassazione civile. Essa si è costantemente riferita a un’importante sentenza del 2008, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano cercato di mettere ordine nella giurisprudenza sviluppatasi dopo che si era incominciato a riconoscere il danno non patrimoniale. La Corte sembrava allora preoccupata del fatto che, nella considerazione del danno non patrimoniale, fosse emersa “una pluralità di aspetti (o voci)” [1], che potevano figurare come forme distinte e indipendenti di danno, ciascuna valutabile per suo conto e risarcibile in modo autonomo. Infatti le corti di merito avevano individuato forme di danno non patrimoniale designate come danno biologico, danno psicologico, danno esistenziale, danno relazionale, ecc. secondo che si prendevano in considerazione cose come la sofferenza fisica o quella psicologica oppure gli sconvolgimenti prodotti da un evento nell’esistenza delle persone coinvolte o nel sistema di relazioni interpersonali in cui erano inserite. Il rischio era che situazioni affini fossero giudicate in modi diversi e che fosse difficile cogliere un orientamento unitario tra gli organi di giustizia che dovevano occuparsi di quelle vicende. Per questo nel 2008 la Corte di Cassazione aveva cercato di dare una certa unità al concetto di danno non patrimoniale, precisando, innanzitutto, come gli aspetti o le voci emersi nel corso di giudizi avessero una “funzione meramente descrittiva” [2]. Essi potevano cioè essere presi in considerazione in modi distinti, ma soltanto per arrivare a una valutazione complessiva e unitaria del danno non patrimoniale. Per ricondurre a unità tutte le forme di danno non patrimoniale, isolando un elemento comune a tutti i suoi aspetti, si poteva usare il concetto di danno morale, consistente nella sofferenza che le persone devono subire per il danno fisico provocato loro, per l’angoscia relativa al proprio destino, mutato repentinamente, per la perdita di una persona cara, per lo sconvolgimento che la menomazione o la perdita di una congiunto producono nella vita familiare e così via. Ma se, per rafforzare la sua funzione unificante, si voleva dare al danno morale un contenuto uniforme, interpretandolo come la sofferenza che accompagna il danno materiale, per i giudici [continua ..]
La III Sezione sapeva bene che il riconoscimento del danno morale come figura autonoma del danno non patrimoniale trovava un ostacolo nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Nella Costituzione italiana il diritto alla vita non era esplicitamente menzionato, e, quando lo aveva chiamato in causa, la Corte di Cassazione lo aveva inteso come incluso nei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 Cost. Ma la Corte costituzionale aveva respinto l’idea della “risarcibilità del danno da perdita della vita”, perché “oggetto di risarcimento può essere solo la perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, laddove la morte immediata non è invero una perdita a carico ‘della persona offesa’, in quanto la stessa è ‘non più in vita’” [6]. La Corte costituzionale aveva stabilito che gli artt. 2 e 32 Cost., i quali garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo e il diritto alla salute, non implicano “il risarcimento iure hereditatis del ‘danno biologico da morte’”, escludendo che la fine immediata della vita potesse essere assimilata alla perdita della salute. Nel ricavare il diritto alla vita dal riferimento generico ai diritti inviolabili dell’art. 2 Cost., la Corte costituzionale si era servita dell’art. 32, che sancisce il diritto alla salute e aveva visto nel danno alla salute gli aspetti risarcibili del danno arrecato alla vita. Era facile osservare che la salute è un bene che può essere goduto solo da chi è vivo e che la morte non è assimilabile a una perdita di salute, perché la riduzione della salute, anche al suo livello minimo, può essere sofferta soltanto da chi è vivo. Del resto già le Sezioni Unite della Corte di Cassazione [7] avevano stabilito che una persona può essere risarcita soltanto per i danni subìti dal momento della lesione a quello della morte, perché la morte immediata impedisce che ci sia un danno sofferto da qualcuno. Ma si trattava del “limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l’oggetto del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona offesa” [8]. Con questa impostazione non si poteva ricuperare il danno da [continua ..]
I giudici si sono avvalsi del riconoscimento della vita come oggetto di un diritto fondamentale, sancito in carte internazionali e in costituzioni. Non c’è dubbio che il riconoscimento di questo diritto faccia parte della storia delle società moderne occidentali, liberali, democratiche, organizzate in stati di diritto. Il diritto alla vita è emerso nell’ambito dello stato assoluto moderno, come limite di fronte al quale anche il sovrano assoluto deve fermarsi. Un teorico della sovranità assoluta, come Hobbes, riteneva che ciò che un sovrano fa è sempre giusto, ma ammetteva che un suddito, condannato a morte legalmente, potesse fare di tutto, perfino ribellarsi, per sottrarsi alla condanna. Nella teoria dello stato limitato non tutto ciò che il sovrano ha la forza di fare è giusto, ché anzi il sovrano non può attentare alla vita di nessuno. Tuttavia che cosa comportasse questo dovere negativo non era del tutto chiaro, perché anche in uno stato limitato si possono legittimamente condannare a morte i cittadini e, in caso di guerra o di calamità, il sovrano li può esporre a un alto rischio di morte. Nella concezione dello stato moderno c’era però l’idea che il potere, perfino quello assoluto, dovesse proteggere la vita dei sudditi; e i doveri positivi verso la vita erano una faccenda più complicata della sua intangibilità. Già Locke metteva insieme con il diritto alla vita i diritti alla libertà e alla proprietà; poi si sono aggiunti il diritto alla felicità, al benessere e alla salute. Mentre per i liberali, da Locke agli utilitaristi, lo stato doveva dare ai singoli i mezzi con i quali essi avrebbero provveduto da sé al proprio benessere, in Germania lo stato autoritario guglielmino si preoccupò di tutelare e promuovere la salute dei cittadini, che era anche la condizione per la quale essi potevano efficacemente prestare il loro servizio allo stato, eventualmente come soldati. L’insieme dei doveri positivi verso la vita doveva dunque assicurare non soltanto la sussistenza, ma una vita che avesse la qualità che le competevano, cioè che fosse dignitosa. La dignità presuppone infatti che si abbia una certa posizione in una gerarchia e individua le qualità che competono al grado gerarchico [continua ..]
Se si parte dalla vita come qualcosa di protetto da un diritto fondamentale, si possono incontrare dunque difficoltà, inerenti sia agli interventi positivi a favore della vita, volti a promuoverla o a darle le forme più dignitose, sia alla disponibilità che ne hanno i suoi soggetti, i quali possono sopprimerla, ma non farne qualsiasi uso. Il diritto alla vita non soltanto non sembra presupporre il valore assoluto della vita, ma sposta l’attenzione sul soggetto della vita, il quale può però darle così poco valore da metterle fine. Per evitare le difficoltà connesse all’idea di diritto, la III Sezione è passata dalla considerazione della vita come diritto alla considerazione della vita come bene, passaggio eseguito in base all’assunzione implicita che ciò che è protetto da un diritto sia un bene. Si poteva così battere una strada diversa da quella imboccata dalla Corte costituzionale, che aveva limitato, almeno in tema di risarcimenti, la protezione offerta dal diritto alla vita, ai soli contenuti positivi della vita oggettivamente riscontrabili, quali i danni alla salute. La III Sezione ha cercato di ricavare tutto il possibile dall’indirizzo aperto dalla Corte costituzionale, arrivando a considerare la morte come il danno massimo alla salute. Sviluppando questa prospettiva i giudici hanno sostenuto che, se la salute è qualcosa di meno rispetto alla vita, questa, essendo qualcosa di più, conterrà la salute e qualcosa di più, perché il meno contiene il più, e meriterà a fortiori tutti i riconoscimenti che spettano alla salute e qualcuno in più. Tuttavia la Corte ha avvertito una certa difficoltà nel costruire inferenze “lineari” dal meno, inteso come contenuto, al più, inteso come contenitore, e ha ammesso di aver introdotto un cambiamento concettuale profondo rispetto agli strumenti giuridici usati ordinariamente, soprattutto nei giudizi di merito. Per andare al di là di questo sapere giuridico di tipo pragmatico, i giudici della III Sezione hanno ritenuto di dover passare a un piano diverso da quello in cui si era mossa fino ad allora la giurisprudenza, riconoscendo alla vita una realtà ontologica differente da quella in cui si erano imbattuti i giudici quando, per [continua ..]
I giudici della III Sezione non hanno approfondito i ragionamenti con i quali hanno giustificato le loro considerazioni sulla vita come bene primario, accontentandosi di ripetere formule generiche. Soltanto una volta la Corte ha appoggiato la propria tesi a qualcosa di diverso da argomentazioni più o meno formali, quando ha affermato che negare il risarcimento del danno da morte “rimorde alla coscienza sociale” e andrebbe contro il “comune sentire sociale dell’attuale momento storico” [18]. Un rinvio di questo genere richiama la giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che, pur senza addentrarsi in speculazioni sulla natura della vita e della morte, si è pronunciata sull’opportunità di impedire la nascita di una persona o di autorizzare l’assistenza medica a un ammalato grave che intende suicidarsi. Nei due casi la Corte Suprema si è espressa con due sentenze orientate in modo diverso. Con una [19] la Corte ha sancito la liceità dell’aborto richiamandosi al diritto alla privacy, cioè a un diritto costituzionalmente protetto, di cui godono direttamente i singoli cittadini, al di là degli interventi legislativi federali o statali. Chiamata a pronunciarsi sul suicidio assistito, la Corte Suprema ha escluso che esso potesse essere legittimato in base alla costituzione federale e ha rinviato la questione agli organi legislativi statali, i soli che abbiano gli strumenti per stabilire che cosa pensino i cittadini in proposito [20]. Il passaggio dalla prima alla seconda sentenza ha segnato un mutamento profondo negli orientamenti della Corte Suprema e della cultura giuridica americana, e non solo. Nella prima sentenza era prevalso il riferimento all’autonomia individuale, che protegge i singoli dal potere politico e dalle opinioni della maggioranza, mentre nella seconda si è sancito il primato delle opinioni prevalenti, cioè della maggioranza, anche su questioni così personali e delicate come il modo di affrontare una malattia terminale. All’orientamento liberale della Corte che aveva sentenziato sull’aborto si è sostituito, anche perché era cambiata la composizione della Corte, un orientamento conservatore comunitaristico. Ovviamente la Corte di Cassazione non cita gli orientamenti della giurisprudenza americana né [continua ..]
I filosofi antichi pensavano che la maggior parte delle persone fossero dei poveri diavoli, che dovevano cavarsela come potevano, sperando nella fortuna. Neppure i potenti stavano tanto bene, coinvolti com’erano in minacciose rivalità. Soltanto poche persone, anche loro con un po’ di fortuna, potevano progettare la propria vita e porsi uno scopo, perché cercavano la propria soddisfazione nell’esercizio intellettuale, cioè nella lettura e nella conversazione. La cultura democratica contemporanea ha “distribuito” questo ideale filosofico, sicché filosofi, moralisti, sociologi, politologi, ecc. hanno immaginato che ognipersona abbia un proprio piano di vita, che mira a uno scopo o a un sistema di scopi, come, secondo Aristotele, facevano i filosofi. Distribuendo il programma di vita filosofica nel senso di Aristotele non lo si è certamente reso più realistico. Già i filosofi antichi discutevano se e quanto la fortuna incidesse nella vita dei sapienti e i più saggi ammettevano che essa incide non poco. È verosimile che su un ideale distribuito la fortuna agisca di più. La semplice formulazione di un piano di vita, il proporsi fini espliciti o sistemi coerenti di fini è frutto di condizioni casuali, come l’eredità genetica che si riceve, il luogo e l’ambiente nei quali si nasce o si cresce, le vicende nelle quali si è coinvolti. Ma, supposto che ci si proponga di organizzare la vita intorno a un piano, la sua realizzazione dipende poi in gran parte dalle circostanze casuali nelle quali capita di vivere. La vita non tende di per sé e “naturalmente” a realizzare un piano come quello che filosofi e moralisti credono di ravvisare nelle esistenze umane. Anche l’immagine che si ricava dal diritto è di solito costruita intorno all’idea che le vite umane siano organizzate secondo piani e chiari proposizioni di fini: la morte è spesso rappresentata come effetto di un’azione per il perseguimento di qualcosa o per neutralizzare ciò che ostacola il raggiungimento di un fine, poiché si uccide per arricchirsi, per amore, per vendetta e così via, sempre secondo i piani. Ma capita che si uccida per caso, investendo una persona che non si conosce, mentre si accompagna un figlio a scuola. Per un fatto accidentale due o più vite sono [continua ..]