Sin dalla fine dell’Ottocento si riteneva dovesse essere risarcito, oltre al danno patrimoniale, il danno afferente la sfera dei sentimenti, specie se conseguenza di reato, ma anche in caso di grave ingiuria lesiva dell’onore e della reputazione.
Inizialmente (e per quasi un trentennio), secondo l’orientamento prevalente, il danno non patrimoniale poteva essere risarcito, ai sensi dell’art. 2059 c.c., in quanto conseguenza di fatto costituente reato. Soltanto negli anni ’70 alcune sentenze della Corte di Cassazione sollevano i primi dubbi sulla corretta interpretazione e applicazione dell’art. 2059 c.c.; viene progressivamente abbandonata la citata impostazione per ricomprendere dunque, nell’astratta previsione della norma, il danno morale soggettivo, il danno biologico ed il danno c.d. esistenziale, nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.
Negli anni si persegue quindi lo scopo di unificare le diverse voci di danno, benché la giurisprudenza anche più recente abbia liquidato voci di danno ulteriori, quali (ad esempio) il danno alla vita di relazione ed il danno alla vita familiare.
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1. I precedenti storici - 2. L'interpretazione tradizionale dell'art. 2059 c.c. e le prime questioni di innovazione interpretativa - 3. Un'evoluzione complessa - 4. Il danno non patrimoniale rivisitato. La pronuncia della Cass., Sez. Un., n. 3677/2009 - 5. Osservazioni sull'ord. n. 7513/2018 della Corte di Cassazione in materia di danno biologico, relazionale, morale - NOTE
Se accanto al danno patrimoniale dovesse essere risarcito anche un danno afferente la sfera dei sentimenti era questione già presente nella case law della fine dell’Ottocento. In questa fase della elaborazione del danno si manifesta un autentico favor per le vittime. È ricorrente l’assunto chele sofferenze morali sono molto più dolorose di quelle fisiche e pertanto anche la liquidazione di una somma di danaro a titolo risarcitorio può essere satisfattiva del danneggiato [1]. Il danno morale è risarcito soprattutto se conseguenza di un reato, e in correlazione con la morte della vittima; ma il danno morale è risarcito anche in caso di grave ingiuria che leda l’onore o la reputazione dell’attore. L’entità del danno è stabilita in via equitativa e commisurata proporzionalmente alla entità dell’offesa e alle conseguenze da questa cagionate [2]. La mentalità dei giudici dell’epoca è particolarmente sensibile alla condizione economica e sociale della vittima e dei soggetti a cui si riconosce il risarcimento. I riferimenti a questi parametri sono espressi in modi molteplici: la Corte di Cassazione di Torino ha modo di precisare che “nella liquidazione del danno morale derivato ai figli dalla morte del padre il giudice deve tener conto dell’entità della sciagura, delle condizioni di età e di educazione delle persone reclamanti e dei mezzi di fortuna delle medesime” [3]; altra Corte ritiene che siano rilevanti, ai fini dell’entità del risarcimento la “qualità delle persone” e “le circostanze di tutta la famiglia” [4]; si tiene conto anche delle “condizioni sociali dell’ucciso” [5]; e di altri criteri di valutazione come (nel caso di uccisione del padre) l’affezione paterna, l’essere il superstite figlio unico e convivente con l’ucciso, oppure (nel caso di uccisione del figlio) l’acerbità del dolore e la perdita immatura e violenta subìta dal padre [6]; si reputa che le circostanze siano variabili con il variare dei casi e delle persone [7]. La distinzione tra danno morale consistente nelle sofferenze d’animo ed effetti economici dell’offesa non è però così netta. Talvolta si fa riferimento alla [continua ..]
Per quasi un trentennio l’interpretazione pedissequa del testo dell’art. 2059 c.c., alla luce del commento (non veritiero) della Relazione che lo accompagnava, ha tenuto banco nella caselaw dei giudici di merito e della Corte di Cassazione. Ma all’inizio degli anni ’70, specie per merito dei contributi dottrinali che insistono sulla funzione risarcitoria, piuttosto che non sulla funzione sanzionatoria della responsabilità civile [25] e per effetto della considerazione dei princìpicostituzionali in materia di tutela della persona, si aprono degli spiragli. Alcune sentenze della Corte di Cassazione – pur sempre restrittive sull’ammissibilità del risarcimento del danno morale – sollevano i primi dubbisulla corretta interpretazione e applicazione della norma di codice. Infatti, queste sentenze [26]precisano che il danno morale (effetto di un reato) è risarcibile solo in capo al congiunto a condizione che la vittima sia deceduta; altrimenti, il danno risentito dal congiunto deve essere considerato mediato e indiretto, perché rappresenta un semplice riflesso della sofferenza della vittima e quindi non risarcibile. La dottrina avverte l’ingiustizia di questa distinzione. Si avvede che la soluzione possa essere giustificata solo per ragioni di “politica del diritto”, in quanto il danno “aggiuntivo” risentito dai congiunti costituirebbe un peso eccessivo per il debitore [27]. Di fronte a questo sbarramento si cerca di pervenire al medesimo risultato ammettendo il diritto di credito (alimentare) dei congiunti [28]. In altri termini, considerare giustificato il risarcimento del danno morale solo in alcuni casi e non in altri urta contro il senso di giustizia di alcuni giuristi. La Corte di Cassazione insiste sulla interpretazione restrittiva, ed esclude che 1’art. 2059 c.c. (interpretato restrittivamente) urti contro il principio di solidarietà previsto dall’art. 2 Cost. [29]. Ma alcuni giudici di merito sono di diverso avviso. Ormai lo spiraglio è diventato una breccia. Il Tribunale di Padova [30] sostiene che la limitazione del risarcimento ai soli casi di reato non è giustificata ed è quindi irrazionale, in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. perché il danno morale può sussistere anche quando il reato non sia [continua ..]
Se insieme con il danno lesivo dell’integrità fisica o del patrimonio sia possibile conferire giuridica rilevanza anche al danno che consiste nell’ingiusto turbamento dell’animo (della vittima o dei suoi familiari) è questione assai discussa. In assenza di disposizioni specifiche, dottrina e giurisprudenza sotto il Codice abrogato avevano difeso tesi opposte, intese alcune a circoscrivere quanto più possibile l’area dal danno risarcibile e a riconoscere il diritto della vittima al pretium doloris(risarcimento del dolore) solo in casidi eccezione, rivolte le altre ad ampliare il numero degli interessi giuridicamente rilevanti e a procedere con maggior larghezza al risarcimento; la soluzione codicistica secondo la quale è risarcibile il danno non patrimoniale soltanto se conseguenza della commissione di un reato (art. 185 c.p.) non è valsa a comporre la controversia. a) L’orientamento tradizionale La giurisprudenza tende ad accreditare modelli di sentenza che seguono la tesi restrittiva, e a riconoscere quindi il risarcimento del danno morale soltanto nelle ipotesi tipiche di commissione di un reato, anche se spesso fa ricorso ad un concetto di danno morale che non si esaurisce nei perturbamenti psichici e nei patemi d’animo ma si spinge fino a considerare le conseguenze luttuose di gravi eventi dannosi che si riflettono sulle stesse persone giuridiche. Accade spesso che lesioni all’integrità psico-fisica di un soggetto gli impediscano di mantenere i consueti rapporti sociali o di instaurarne di nuovi. Il danno alla vita di relazione si atteggia perciò in modo diverso in riferimento al posto che occupa il soggetto danneggiato nella vita sociale. Proprio perché conseguenza di una lesione psico-fisica, il danno alla vita di relazione è stato ascritto ora alla categoria dei danni di natura patrimoniale, ora alla categoria dei danni morali, ora infine ad una categoria a sé, intermedia tra le precedenti. Il problema, che acquista notevole rilevanza pratica nella misura in cui la classificazione di questo tipo di danno è presupposta dalla ammissibilità del suo risarcimento, è tuttora aperto in dottrina e in giurisprudenza. Recentemente si è revocata in dubbio anche la legittimità di questa figura di danno che, se può costituire un [continua ..]
Una delle sentenze più innovative sul danno non patrimoniale alla persona (del 16 febbraio 2009, n. 3677) – resa con riguardo ad una fattispecie concernente il licenziamento illegittimo – ha confermato i princìpidi dirittosanciti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 (e con le sentenze depositate nello stesso giorno, ed aventi il medesimo tenore, nn. 26973, 26974, 26975).Riprendendo in sintesi le statuizioni della Suprema Corte, i giudici hanno precisato che: (i) “il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge; questi casi si dividono in due gruppi: quelli in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante reato) e quelli in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da norme di legge adhoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge”; (ii) “il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia, onnicomprensiva, unitaria, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sotto categorie”; (iii) “il c.d. danno esistenziale, inteso quale “il pregiudizio alle attività non remunerative della persona” causato dal fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente garantito, costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato”; (iv) il diritto al risarcimento del danno morale, in tutti i casi in cui esso è ritenuto risarcibile, “non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio”. La formulazione sintetica dei princìpisconta, necessariamente, le luci e le ombre, le tonalità via via graduate, le nuances a cui si può ricorrere nella motivazione della sentenza, non solo articolando meglio il ragionamento, ma ricorrendo a quelle argomentazioni in sequenza che riescono a comunicare in modo più compiuto il senso del precetto che si vuole porre, o ribadire. In questo caso, la sintesi non compie però soltanto una estrapolazione [continua ..]
Il danno (morale) alla persona è ancora oggetto, nonostante un profluvio di contributi dottrinali e una cospicua messe di decisioni dei giudici di merito e di legittimità, di oscillazioni, di incertezze, di proposte interpretative chevorrebbero apparire definitive ed invece sono ridiscusse o addirittura disattese mettendo a dura prova i propositi di nomofilachia sui quali più volte la Corte di Cassazione ha insistito e che il legislatore ha addirittura codificato in regole vincolanti per l’interprete (v. d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197). L’esempio eclatante è dato dalle diverse accezioni che con il tempo sono state assegnate al “danno biologico”, alla contrapposizione tra “danno biologico” e “danno esistenziale”, agli interventi frammentari del legislatore e alle proposte di legge rimaste lettera morta. Essendo passato quasi mezzo secolo dalla formula ideata da Cesare Gerin, nell’ambito della medicina legale, e ripresa da VitoMonetti e GiancarloPellegrino, i due giudici che per primi inventarono il danno biologico come tecnica risarcitoria del danno alla persona [38], si sono venuti perdendo nel tempo gli scopi originari dell’innovazione straordinaria che finì per conquistare tutti i Tribunali, e via via le Corti d’appello, la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione. Gli scopi erano sostanzialmente tre: i) assicurare l’applicazione degli artt. 2 e 3 Cost., sia sotto il profilo dell’eguaglianza formale sia sotto il profilo della eguaglianza sostanziale e della solidarietà, svincolando i criteri di quantificazione del danno dal reddito patrimoniale della vittima; ii) risarcire in modo compiuto il danneggiato, al fine di tutelare il diritto inviolabile alla salute; iii) unificare le diverse voci di danno che portavano alla “lotteria forense” di cuigià allora parlavano i giuristi inglesi e statunitensi, travagliati dal medesimo problema della incertezza nella liquidazione e nella varietà non egalitaria dei risarcimenti [39]. I primi due scopi sono stati raggiunti con molta fatica: la Corte costituzionale, per prima, ha legittimato il danno biologico con la sentenza del 26 luglio 1979, n. 88 [40]; la Corte di Cassazione ha impiegato quasi dieci anni e solo dopo pronuncia della Corte [continua ..]