Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una sentenza resa nel 2015, hanno ribadito con nettezza il tradizionale veto all’autonoma risarcibilità del danno da morte nell’ordinamento giuridico italiano. Nel presente scritto gli autori, dopo aver criticato le motivazioni alla base del diniego del ristoro per la perdita della vita, passano in rassegna i fattori che dovrebbero far propendere per il riconoscimento del danno tanatologico.
Articoli Correlati: perdita della vita - danno tanatologico - risarcimento
1. Il danno da perdita della vita in Cassazione: soltanto un giro di valzer? - 2. La litania dei “no, perché, ...” - 2.1. Il classico dei classici: 'la morte non è nulla per noi' - 2.2. L'argomento principe sul piano tecnico-giuridico (la morte è danno-evento) con i suoi puntelli e corollari - 2.3. Disomogeneità tra danno alla salute e danno da morte - 2.4. Tranquilli, ci pensa la scure del diritto penale - 2.5. Measuring the unmeasurable? - 2.6. La moltiplicazione dei danni e la crisi del sistema assicurativo (e non solo) - 2.7. Volete davvero arricchire gli infidi familiari? - 2.8. Di cosa vi lamentate? Le alternative risarcitorie non mancano - 2.9. Così fan tutti ... - 3. Oltre il mito della pura compensazione: un'altra narrazione della medesima storia - 3.1. Oltre la neutralità dell’evento morte: il 'Deprivation of Goods Principle' - 3.2. Il recupero della deterrenza, gli inutili orpelli e la tenuta del sistema - 3.3. Da + ∞ a zero in un istante: ha davvero senso? - 3.4. Lì dove non osa il diritto penale - 3.5. Calcolare il danno: si può fare - 3.6. Ricalibrare il quantum debeatur - 3.7. Un calmiere per gli eredi senza sacrificare gli altri soggetti (realmente) affranti per la perdita - 3.8. E se la vittima aveva concluso i suoi giorni in condizioni di isolamento? - 3.9. Da Lisbona al Connecticut e ritorno: cenni su un panorama variegato e in evoluzione - 4. A mo' di conclusione - NOTE
Una ventata d’aria fresca in un sepolcro imbiancato, di quelle da rimpiangere negli anni a venire, oppure la doverosa condanna per un’innovazione in odore di eresia, che andava tolta immediatamente dal giro? Così, da fronti opposti, si può per sommi capi descrivere la pièce en trois actes andata in scena tra l’inizio del 2014 e la metà dell’anno successivo nelle aule di Piazza Cavour e caratterizzata in avvio dall’inatteso riconoscimento – in evidente soluzione di continuità rispetto a una tradizione quasi secolare – della risarcibilità del danno per la perdita della vita come tale, quindi dalla subitanea richiesta di un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite [1] e, per finire, dal responso con cui il più autorevole consesso della giurisdizione ordinaria ha riportato indietro le lancette della storia [2]. Invero, una ricomposizione del quadro previgente non era affatto imprevedibile, se si tiene presente che, nel momento in cui si era palesato il ribaltone, l’osservazione dei precedenti di legittimità – non solo della serie storica nel suo complesso, ma anche di quelli di più fresca data, che parevano aver persino accentuato l’egemonia del mainstream [3] – induceva a toccare con mano un orientamento granitico, nulla che potesse far presagire una svolta così dirompente. Non mancavano, è vero, segnali di insoddisfazione, che si incarnavano in alcune coraggiose e alquanto isolate voci della giurisprudenza di merito e soprattutto negli scritti di non pochi esponenti dell’accademia. Le riflessioni elaborate sul fronte dottrinario hanno costituito, in un certo senso, l’humus in cui si è andato a radicare il tentativo di rimuovere il veto alla tutela risarcitoria del diritto alla vita e di tagliar corto con i ‘sotterfugi’ variamente assortiti dei quali ci si è serviti per cercare di ridimensionare le ricadute controintuitive di una siffatta preclusione. Nella vicenda in esame, la repentina invocazione delle Sezioni Unite ha in pratica tarpato le ali al nuovo corso, impedendo che i concetti ‘rivoluzionari’ sedimentassero sino a tracimare in altre decisioni. Fatto sta che, tra l’entusiasmo (moderato, per via dell’anzidetta rimessione) di chi plaudiva al diritto alla vita [continua ..]
Le Sezioni Unite, nel respingere con tono tutt’altro che emotivo l’attacco lanciato con dovizia di argomentazioni per espugnare la roccaforte dell’irrisarcibilità della lesione al bene ‘vita’, si rifugia nei ‘classici’; in altri termini, rimangono ancorate ai fattori ostativi che ab immemorabile sogliono essere snocciolati, a mo’ di litania, per tacitare ogni velleità di sanzionare sul piano civilistico il responsabile dell’uccisione. Conviene, dunque, ricapitolare sinteticamente i capisaldi della tesi rivelatasi vincente in Cassazione: alcuni di ordine sistematico, altri operanti sul piano dei valori, altri ancora più prosaicamente riducibili a difficoltà di gestione dei meccanismi liquidatori.
La rassegna non poteva non partire dal personaggio che è stato prescelto come nume tutelare dai fautori dell’impossibilità ontologica di riconoscere alcuna pretesa connessa alla perdita della vita in capo ai successori della persona trapassata: si allude naturalmente a Epicuro e al celeberrimo passaggio della lettera a Meneceo. Le parole del filosofo di Samo, dettate dall’apprezzabile intento di superare la fobia della morte, sembrano chiudere la partita senza ammettere replica. Del resto, la suggestione epicurea riecheggia più volte nella cultura occidentale – dal Περὶ φύσεως di Parmenide (“L’essere è ... il non essere non è”) al De Rerum Natura di Lucrezio (“Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda”), via via sino al Tractatus logico-philosophicus di Wittengstein (“La morte non è evento della vita. La morte non si vive”) – e non stupisce, allora, che si affacci anche nelle motivazioni delle sentenze. Un po’ di nitore filosofico intimidisce il profano e aiuta a corroborare una soluzione – non c’è danno da ristorare ... – che il senso comune rifiuterebbe.
La morte, per chi nega la sua autonoma rilevanza a fini risarcitori, sconta il fatto di non incastrarsi nel reticolo di schemi e paradigmi che, secondo gli slogan imperanti, sorreggono l’edificio della responsabilità civile. Quest’ultima, infatti, si atteggerebbe a strumento deputato a rammendare gli strappi subiti dal titolare di un interesse meritevole di tutela, con ulteriori filtri laddove tali lacerazione siano aliene da una dimensione patrimoniale. Stando così le cose, se cioè l’illecito civile possiede una vocazione meramente riparatoria, che mette a sua volta capo alla necessaria constatazione di un “danno-conseguenza”, il pregiudizio tanatologico non riesce a trovare spazio. La morte estingue il titolare dell’interesse alla vita, sul quale non si potrà più riverberare alcuna conseguenza negativa. Non resterebbe che identificare il danno con la lesione di tale interesse, ma ciò vorrebbe dire sconfinare nel territorio dell’aborrito “danno-evento” e dell’ancor più ostracizzata funzione punitiva della responsabilità civile [4]. Incamminandosi sul crinale del “danno-conseguenza”, peraltro, una negazione assoluta dell’ingresso di qualsiasi posta risarcitoria in capo al de cuius ha ragion d’essere unicamente nell’eventualità in cui la morte sia istantanea. L’esistenza di uno iato temporale tra la menomazione dell’integrità fisica, che innesca il processo destinato – alle volte senza possibilità di interromperlo – a sfociare nella morte, e appunto l’evento letale giustifica, in chiave riparatoria, il riconoscimento di voci funzionali alla copertura di diverse componenti del danno non patrimoniale. E così il giudice, cronometro alla mano, misurerà l’ampiezza dell’intervallo di permanenza in vita, onde stabilire se esso superi la soglia dell’apprezzabilità, permettendo di monetizzare il deficit di salute in quel frangente (“danno biologico terminale”); ancora, vestiti i panni di un regista di horror movie, ricostruirà se quanto accaduto in quell’intervallo è sufficientemente agghiacciante, sì da giustificare il ristoro della sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della propria fine (voce non di rado [continua ..]
Il no al danno da perdita della vita, nel quadro di un sistema che allo stato non ha remore nel compensare (ed è, anzi, da taluni accusato di farlo in maniera sin troppo generosa) le lesioni inferte alla salute, si spiega poi con la riluttanza ad accomunare i due beni sotto l’egida di una categoria unificante. Emblematico di questa ritrosia è l’incedere delle Sezioni Unite che, dopo aver rammentato come il “bene giuridico ‘vita’ [...] costituisc[a] bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente”, approda in maniera fulminea all’affermazione secondo cui “la morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene ‘salute’ ”.
D’altronde, soggiungono i novelli seguaci dell’epicureismo applicato alla responsabilità civile, non ci sarebbe nemmeno da preoccuparsi sul versante della prevenzione dell’incolumità degli individui, posto che per assicurare l’effetto deterrente bastano e avanzano le norme incriminatrici che minacciano di infliggere sanzioni penali a chi pone in essere condotte omicidiarie. Non c’è dunque bisogno di snaturare la responsabilità civile, facendola regredire a epoche in cui essa non era che una costola della responsabilità penale, dalla quale si è affrancata attraverso un lunghissimo e articolato percorso. Oltretutto, se è vero che l’apparato rimediale civilistico persegue l’obiettivo dell’integralità del risarcimento, il raggiungimento del traguardo è soltanto tendenziale, né può dirsi necessitato da alcuna previsione costituzionale.
I tentativi di far breccia nel fronte del no sono altresì avversati sul piano della conversione in denaro del valore che è stato annientato. Qui le obiezioni si ramificano essenzialmente su due segmenti. Da un lato, il rifiuto di un’operazione contabile che è percepita come la spia del paventato scivolamento verso una degradante commodification della vita umana. Dall’altro, si evidenziano insormontabili difficoltà di quantificazione, le quali consigliano di rinunciare all’intrapresa se non si vuol finire alla mercé del mero arbitrio di chi è chiamato a stabilire un’arida cifra.
Il floodgates argument (basato sull’assunto che “it is better to prevent all claims by denying a duty than allow a ‘flood’ of claims” [5]) è lo spauracchio che talvolta viene evocato per stroncare sul nascere una determinata classe di pretese risarcitorie [6]. Nel nostro caso assistiamo a una variazione sul tema: ciò che si teme è l’esondazione dei danni ricollegabili alla stessa vicenda. Un’altra voce si aggiungerebbe a quelle che già usualmente si candidano a entrare in scena e che la giurisprudenza a stento prova a controllare e coordinare. Al moltiplicarsi dei danni farebbe logicamente da pendant la crescita vertiginosa dei ristori. Lo spettro che si agita è in primo luogo il collasso dei meccanismi di third-party insurance, cogenti e su base volontaria. Non meno inquietante è lo scenario che si profila per le casse erariali, specie in punto di maggiori esborsi generati da errori e omissioni addebitabili alla sanità pubblica.
Nella logica del danno da perdita della vita, il ristoro non può che attribuirsi agli eredi del defunto. In mancanza di testamento, l’importo della condanna andrebbe dunque devoluto al coniuge e/o ai parenti che abbiano accettato l’eredità o, in ultima analisi, allo Stato. Il rischio è, in primo luogo, che dalla morte del de cuius per il fatto di un terzo traggano un beneficio anche persone sì legate allo scomparso da un vincolo familiare, ma per i più disparati motivi a lui indifferenti o totalmente invise; in altri termini, soggetti con i quali la sintonia era venuta meno, sino a inaridire il rapporto interpersonale o a trasformarlo in atteggiamento di reciproca ostilità, oppure con i quali non si era mai creato un feeling. Per non parlare delle ipotesi in cui il pagamento si dirige verso l’entità lontana e indifferente dello Stato. Questi scenari, tacciati di ingiustizia, non si materializzano se si accorda la preferenza al ristoro del patimento e dello sconvolgimento della quotidianità, quali pregiudizi sofferti iure proprio da coloro che avevano intrattenuto con la vittima legami emozionali di particolare intensità [7], valorizzando così un fattore idoneo tanto a escludere dal novero degli aventi diritto al ristoro alcuni tra gli appartenenti alla cerchia dei prossimi congiunti (coloro che rispecchiano i modi di dire “fratelli coltelli” o “parenti serpenti”), quanto a far rientrare nel giro persone estranee al nucleo familiare, ma legate al defunto da una relazione affettiva non effimera (in primis, fidanzati o conviventi more uxorio).
In virtù di ciò che è stato poc’anzi evidenziato (possibilità di attribuire ai superstiti somme reputate idonee a compensare i danni non patrimoniali e, se del caso, patrimoniali richiesti iure proprio) e per quanto sopra notato al § 2.2 (possibilità di attribuire agli eredi di somme reputate idonee a compensare i danni riportati dal defunto dopo il ‘colpo fatale’, mentre era ancora in vita), l’aspirazione al risarcimento del danno tanatologico – sempre secondo gli scettici – non trova ragion d’essere nemmeno nell’opportunità di traslare il peso della perdita sull’autore dell’illecito. Infatti, grazie alla possibilità di condannare il responsabile ora a rifondere questo pregiudizio, ora quell’altro, e in taluni casi persino a ripianare il complesso delle perdite, si può riuscire, almeno nelle situazioni che si presumono standard, a infliggergli una condanna di entità tutt’altro che trascurabile.
Le Sezioni Unite non rinunciano a guardare oltre i confini nazionali. La cosa di per sé non è certo esecrabile. Ancorché sporadici, non mancano gli esempi in cui la nostra Suprema Corte, in controversie prive di elementi di transnazionalità, ha tratto spunto da dati legislativi o giurisprudenziali provenienti dall’estero, per corroborare il proprio convincimento quando le toccava avventurarsi in aree fin lì poco esplorate o districarsi tra questioni scottanti: si pensi ad alcuni brani delle decisioni rese dai giudici della legittimità in materia di interruzione di trattamenti sanitari life-sustaining [8] o, più di recente, in tema di wrongful life claims [9]. Nel nostro caso, l’estensore trova conforto nell’osservare che la scelta della Cassazione risulta “conforme agli orientamenti della giurisprudenza europea con la sola eccezione di quella portoghese”. Posto che evidentemente l’esperienza giuridica lusitana è considerata priva di appeal o vale poco più di un aneddoto riferito dall’eccentrico di turno, fa comodo allinearsi alla maggioranza che, parafrasando il celebre motto, non può mai aver torto. Ovvero, come è stato più elegantemente osservato [10], l’argomento comparatistico segnala e certifica l’anelito all’uniformità delle soluzioni giurisprudenziali.
Proviamo ora a saggiare la tenuta dei singoli pezzi della macchina da guerra messa in piedi dalle Sezioni Unite e dal coro di quanti esaltano la controffensiva sferrata nei confronti del nemico giurato (che veste l’uniforme del danno tanatologico), costretto a indietreggiare su tutta la linea del fronte.
La ferrea logica di Epicuro, ancorché estrapolata, ad opera dei suoi estemporanei seguaci, dalla sua peculiare Weltanschauung, è tuttora suadente [11]. Sennonché, mette conto di segnalare che nel dibattito filosofico sulla morte fa sentire il suo peso un diverso atteggiamento, che va sotto il nome di “Deprivation of Goods Principle”. Secondo i suoi assertori [12], la morte, lungi dall’essere un evento eticamente neutro, può essere qualcosa di negativo nella misura in cui priva l’individuo di beni di cui egli avrebbe potuto godere se fosse rimasto in vita [13]. Questa formulazione, sia pure coniata ad altri e ben diversi fini, testimonia la praticabilità e, perché no?, la dignità, nel campo in esame, di letture alternative a quella canonica; in specie, il cagionare la perdita della vita può esser visto non semplicemente come un quid ormai indifferente per il morto, ma come una condotta che ha sottratto utilità a una persona ancora in vita. Con riflessi nient’affatto marginali sulla problematica risarcitoria. L’argomento filosofico scade, allora, a teoria dell’argomentazione: retorica, insomma, pane quotidiano dei giuristi.
Tra l’incudine del diniego (o, nella migliore delle ipotesi, della svalutazione) della componente afflittiva della responsabilità civile e il martello della pervicacia nella ricerca a tutti costi del danno-conseguenza, che non viene trovato nella morte (per il semplice fatto che non c’è più chi dovrebbe subire le conseguenze nefaste), la figura del danno da perdita immediata della vita finisce con l’andare in frantumi. La riduzione alla mera funzione riparatoria/ consolatoria è un’idea cara alla giurisprudenza, che in effetti la erige a baluardo contro la temuta invasione dei danni punitivi [14]. Ma, senza entrare neppure nei preamboli di un tema dalle implicazioni quanto mai delicate [15], si può convenire che una visione così radicale per un verso mette pericolosamente in secondo piano la deterrenza che, come si rimarcherà più avanti, non può essere completamente delegata al lavoro dei pubblici ministeri e dei giudici penali; e, per altro verso, trascurando una messe di indici positivi di segno opposto, svela i connotati di una lettura riduttiva [16], oltre che parzialmente mentitoria. L’intransigenza della ricostruzione teorica senza sbavature deve misurarsi con una realtà infinitamente più complessa, nelle premesse come negli svolgimenti. “Allo strumento del risarcimento del danno, cui resta affidato il fine primario di riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, [vengono] ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti (posto che la minaccia del futuro risarcimento scoraggia dal tenere una condotta illecita, anche se, secondo gli approdi dell’analisi economica del diritto, l’obiettivo di optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato) e la sanzione (l’obbligo di risarcire costituisce una pena per il danneggiante). Si riscontra, dunque, l’evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente ...”: così si legge non nelle carte di uno sprovveduto cercatore di novità a ogni costo, ma in una meditata riflessione della Corte di legittimità [17]. Non c’è dubbio che aprire al danno tanatologico significherebbe [continua ..]
Se un redivivo dottor Frankenstein riuscisse a mettere a frutto le sue abilità manipolatorie, arrestando il processo che porta alla morte un istante prima che esso si concluda e cristallizzandone le conseguenze ormai prodotte in maniera irreversibile, saremmo al cospetto di una menomazione della salute che, anche al profano, apparirebbe di gravità estrema. E i meccanismi del diritto non potrebbero non prenderne atto, costringendo il soggetto cui si fa risalire l’innesco di quel processo morboso al pagamento di una somma verosimilmente ingente. Se, però, a chi si trovi nella descritta condizione venisse sottratto uno scampolo marginale di salute, esasperando quindi la menomazione, ci troveremmo in una situazione che, alla stregua dello ius quo utimur, invece di appesantire il fardello per il responsabile, determinerebbe (in assenza di altri appigli) il venir meno della condanna. Gli economisti chiamerebbero in causa l’idea di “kinked curve”, curva spezzata; ma non sarebbero in grado di darne giustificazione apprezzabile. I giuristi, invece, credono di poterlo fare, con un sortilegio verbale. Ma si tratta di un’illusione dalla corda assai corta. La pretesa disomogeneità tra assenza della salute e assenza della vita porta a conseguenze paradossali ed è funzionale soltanto a far quadrare il cerchio della concezione anti-danno tanatologico.
La funzione salvifica, in termini di deterrenza, della repressione criminale è più un auspicio che una rassicurazione. Ci sono vaste aree presidiate dalla strict liability, dove l’esigenza che il potenziale danneggiante adotti precauzioni è più che mai avvertita, che non saranno nemmeno sfiorate dalla parvenza di un reato. Nel campo dell’illecito colposo qualche speranza in più potrebbe riporsi nell’azione penale; ma occorre fare i conti con un meccanismo processuale che, in funzione garantista per l’imputato, segue regole proprie nient’affatto sovrapponibili a quelle del giudizio risarcitorio instaurato in sede civile: una per tutte, la discrasia ormai acquisita quanto all’accertamento del nesso eziologico. Dunque, un intervento delle Sezioni civili, quand’anche inteso come complementare, si palesa opportuno, se non proprio indispensabile: in epoca di rincorsa a tutto campo del private enforcement, sgomenta la scelta di rinunziarvi là dove esso ha da sempre operato proficuamente.
Non si fa certo fatica a convenire su affermazioni del seguente tenore: “there can be no exact or uniform rule for measuring the value of human life” [23]; o, ancora, “financial damages are a crude substitute for loss” [24]. Sennonché, prendendo la china dell’incommensurabilità, si dovrebbe a rigor di logica fare un passo indietro al cospetto di buona parte delle entità non patrimoniali. Per non dire del disagio al cospetto di beni materiali, sì, ma infungibili (quanto vale la Gioconda?). Le difficoltà ci sono e non vanno nascoste; non devono però costituire un alibi per non rimboccarsi le maniche e rinunciare a ogni sforzo di padroneggiare una delle metodiche tra le molteplici, caratterizzate da diversi gradi di sofisticazione, che vengono cesellate e divulgate da studiosi di economia e daadepti della law and economics [25].
Premesso che una ponderata analisi dei trend in corso non segnala, nemmeno nei settori della responsabilità civile che si ritengono più esposti alle richieste risarcitorie, un tangibile rischio di sovracompensazione, per fugare ogni dubbio di una siffatta deriva è auspicabile che si proceda con cautela una volta caduto il veto al danno da perdita della vita. Invece di dar luogo all’ennesima, forsennata sommatoria di innumerevoli frammenti sparsi, occorrerebbe porre mano a una rifondazione, passando sotto vaglio critico le singoli voci nel tempo sedimentatesi, come si è già anticipato discorrendo dei pregiudizi sofferti dal de cuius nell’intervallo di sopravvivenza. E chissà se quest’opera di razionalizzazione, prendendo le mosse dal danno da morte, non riuscirebbe a coinvolgere l’intero fronte del danno non patrimoniale conseguente a lesione dei valori attinenti alla sfera psico-fisica della persona.
È senz’altro dettata da ottime intenzioni l’idea di negare il risarcimento del danno tanatologico iure hereditario perché le somme possono finire nelle mani di persone che, sebbene legate al defunto da relazioni familiari, ne evitavano la frequentazione o persino lo detestavano. Qui, però, è bene esorcizzare gli stereotipi. A parenti-serpenti è dato contrapporre badanti-amanti: e occorre riconoscere che per questa via, costellata di pregiudizi ed evidenze aneddotiche, non si va molto lontano. Un approccio più distaccato induce a riconoscere che il conferimento di premi immeritati è un rischio consustanziale al fenomeno successorio, specialmente quando non è regolato per testamento. Se non si varca la soglia (decisamente elevata) dell’indegnità, nulla osta a che il parente Caio, quantunque non particolarmente scosso dalla scomparsa di Tizio, entri nella titolarità dei beni da quest’ultimo lasciati, per il solo fatto che figuri tra i successibili concretamente chiamati all’eredità in base all’applicazione dei criteri legali. Caso mai, ove gli eredi effettivamente percepissero una somma riferibile alla perdita del dante causa, si farebbe davvero pressante la segnalata esigenza di sfoltire le altre voci, eventualmente azzerando quanto nel sistema corrente viene ai medesimi soggetti elargito iure proprio, talvolta acriticamente e sulla scorta di criteri meramente formali. Ciò non comporterebbe automaticamente un’analoga obliterazione delle voci di danno risarcibile per quanti eredi non sono, ma possano provare, anche ricorrendo a presunzioni [26], di aver allacciato e mantenuto un legame sufficientemente solido con il defunto, sì da accusare il colpo per la sua assenza.
Come si è notato, c’è un numero non esiguo di situazioni nelle quali, rimanendo entro i paletti fissati dalle Sezioni Unite, la condanna scatta; e, per circostanze contingenti (ad es., parentado nutrito e affiatato), può darsi che il suo ammontare complessivo non sia irrisorio. Ma la commedia umana è popolata da una varietà di personaggi, ciascuno con un proprio percorso, che non necessariamente sfocia, a livello di rapporti con gli altri, in una realtà tutta rose e fiori. È perciò inaccettabile un sistema che dichiaratamente rinunci a comminare qualsivoglia sanzione civile a chi ha provocato la morte di una persona, non rimasta in vita successivamente alla lesione per un tempo ritenuto sufficiente e incapace di rendersi conto del proprio ineluttabile destino, la quale sia altresì priva di relazioni affettive, eventualmente non per sua scelta, ma perché emarginata o reietta. Oltretutto, l’economista ci ricorda – aiutando l’interprete anche a superare l’obiezione di cui al punto che precede – che “non è tanto importante a chi [il] pagamento deve essere fatto; è infatti il pagamento in sé del danno da parte di chi ne è responsabile che costituisce il disincentivo al comportamento irresponsabile e dannoso per tutta la società”; infatti, “quello che interessa è che il responsabile del danno provocato dalla morte di un’altra persona paghi questo costo sociale, indipendentemente da chi riceve il pagamento” [27].
Abbiamo visto che tra i motivi che spingono la Cassazione a non abbandonare i sentieri ampiamente battuti per l’addietro c’è l’intento di continuare a camminare all’unisono con gli altri sistemi europei, messo in disparte il Portogallo. Ma il mondo non finisce alla foce del Tago: basta avere il coraggio di spingersi oltre le colone d’Ercole per scoprire esperienze dove hanno pieno diritto di cittadinanza figure quali i “damages for loss of life” e quelli “for loss of expectation of life”. Se il Supremo Collegio non si fa calamitare da quanto avviene a Lisbona e dintorni, è ben difficile ipotizzare che si faccia persuadere dall’Alta Corte del Malawi allorquando, per accordare il risarcimento in base alla seconda delle figure testé menzionate, conferisce rilievo al fatto che “the deceased had a good number of years to live were it not for the wrongful death” [28]. Ma c’è quanto basta per neutralizzare la cogenza, da herd behavior, di accodarsi a tutti gli altri. Del resto, nel nostro veloce excursus potremmo poi salpare verso occidente, per fermarci, ad esempio, in Connecticut e imbatterci una decisone resa dalla Superior Court di quello Stato nel 2014: nell’approvare il verdetto con cui la giuria in un caso di medical malpractice aveva condannato il sanitario a pagare poco più di otto milioni di dollari, vuoi per la morte del paziente in quanto tale vuoi per la compromissione della sua “ability to enjoy life’s activities”, il giudice afferma esplicitamente che “some damages are recoverable for death itself, even though instantaneous, without regard to earnings or earning capacity” [29]. Il Connectitut non è la proverbiale mosca bianca, anche se non si può sottacere che il dato quantitativo è, pure nella realtà statunitense, sbilanciato verso l’atteggiamento opposto [30]; peraltro, il danno da loss of life emerge in sede di applicazione dei rimedi atti a contrastare le violazioni dei diritti civili perpetrate dagli State officials [31]. Il senso di questi cenni non è di inventariare e soppesare le forze degli schieramenti che si fronteggiano, quanto piuttosto di mostrare come l’osservazione a compasso allargato degli altrui scenari offra soluzioni che meritano quanto meno di [continua ..]