Per la seconda volta in cento anni le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate ad occuparsi della esistenza e della risarcibilità d’un danno “da perdita della vita”. E come cento anni fa, hanno risolutamente negato che il nostro ordinamento contempli una simile figura di danno.
La sentenza, oltre che per il decisum, riveste importanza anche per le motivazioni addotte, con le quali la Suprema Corte cerca di mettere un freno ad interpretazioni troppo disinvolte, ed all’ammissibilità di un generico richiamo dell’interprete alla “coscienza sociale”.
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1. Morire è un danno per chi muore? - 1.1. La genesi del contrasto - 1.2. La giurisprudenza di merito - 1.3. Cenni sugli orientamenti dottrinari - 2. Gli argomenti delle Sezioni Unite - 2.1. La confutazione della contraria opinione nella sentenza n. 15350/ 2015 - 3. Una questione settled - 3.1. Il danno 'terminale' - 4. Questioni di diritto 'intertemporale' - 4.1. Che accadrà ai giudizi ancora pendenti, alla luce del dictum delle Sezioni Unite?
Con la sentenza 22 luglio 2015, n. 15350 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che la persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito non può acquistare, e di conseguenza trasmettere agli eredi, alcun diritto al risarcimento del danno per “perdita della vita”. L’intervento delle Sezioni Unite si era reso necessario per porre fine ai contrasti insorti in seno alla III Sezione della Corte di Cassazione. Infatti secondo l’orientamento tradizionale, oggi confermato dalle Sezioni Unite, la persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito non può acquistare alcun diritto al risarcimento del danno da “perdita della vita”: principalmente perché il diritto al risarcimento può esistere solo in capo ad una persona (fisica o giuridica), sicché se manca il titolare dell’acquisto, nessun acquisto può compiersi. La sentenza “capostipite” in tal senso fu quella pronunciata da Cass. 28 novembre 1995, n. 12229. Nella motivazione di tale sentenza si afferma infatti che l’acquisto di un diritto, presupposto necessario per trasmettere quel diritto agli eredi, è l’esistenza d’un soggetto in grado di acquistare. Con la morte della persona fisica, tuttavia, viene meno il soggetto in grado di acquistare; pertanto la contemporaneità tra l’acquisto del (preteso) diritto e la scomparsa del soggetto che dovrebbe acquistarlo rende inconcepibile logicamente, prima che giuridicamente, la pensabilità d’un acquisto jure haereditario del diritto al risarcimento del danno per perdita della vita. Nella medesima sentenza la Corte richiamò altresì, a sostegno della conclusione appena riassunta, anche il decisum di Corte Cost. 27 ottobre 1994, n. 372 (in Foro it., 1994, I, 3297), la quale ritenne infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c., nella parte in cui non consente il risarcimento del danno per violazione del diritto alla vita del de cuius, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost. In questa decisione il giudice delle leggi, chiamato a stabilire se fosse conforme a Costituzione una interpretazione dell’art. 2043 c.c. (così prospettò la questione il giudice rimettente) che impedisse la risarcibilità del danno da morte jure haereditario, accolse la soluzione affermativa osservando [continua ..]
Questo orientamento risalente, unanime e indiscusso venne messo in crisi dalla decisione adottata da Cass., Sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361, in Giur. it., 2014, 833, con nota di P. VALORE, La risarcibilità del danno da perdita della vita. Con questa decisione la Corte di Cassazione ritenne erronei tutti gli argomenti spesi, nei vent’anni precedenti, dall’orientamento sino ad allora unanime in punto di irrisarcibilità del danno da “perdita della vita”, e li sottopose a numerose critiche così riassumibili: a) la negazione del risarcimento del danno da perdita della vita d’un prossimo congiunto non è coerente con “l’effettivo sentire sociale”; b) è irrazionale ammettere al risarcimento le lesioni più modeste della salute, e negarlo nel caso di morte, che rappresenta la lesione massima della salute; c) la lesione d’un diritto fondamentale come quello alla vita non può rimanere priva di conseguenze sul piano civilistico; d) ammettere la risarcibilità del danno da perdita della vita non significa infrangere il principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, ma è piuttosto eccezione a quel principio, necessaria perché la vita racchiude tutti gli altri beni ed è bene supremo; e) il danno da perdita della vita è di fatto già risarcito dalla giurisprudenza, attraverso il ricorso ad escamotage quali il “danno catastrofale” o il “danno tanatologico”; f) la distinzione tra morte immediata (non risarcibile) e lesioni seguite da morte a distanza di tempo (risarcibile) è “superata da norme internazionali ed europee”; g) non è vero che la vittima primaria non si giova del risarcimento, perché accresce il suo “patrimonio ereditario”; h) non è necessario che la vittima avverta di morire, perché il danno non patrimoniale è risarcibile a prescindere dalla consapevolezza che la vittima ne abbia. Sulla base di queste argomentazioni, la Corte con la ricordata sentenza n. 1361/2014 cassò con rinvio la decisione di merito che aveva rigettato la domanda, proposta dai prossimi congiunti di persona deceduta per colpa altrui, di risarcimento jure haereditario del danno da perdita della vita.
Il contrasto inaugurato da Cass. n. 1361/2014 in seno alla giurisprudenza di legittimità aveva già diviso, negli anni precedenti, la giurisprudenza di merito. Anche Tribunali e Corti d’appello, infatti, si erano divisi tra quanti – la maggioranza – negavano la risarcibilità del danno “da perdita della vita” (ex permultis, Trib. Piacenza 29 giugno 2010, in Danno e resp., 2011, 257, con nota di C. MEDICI; Trib. Palermo 4 luglio 2007, ivi, 2008, 571; Trib. Campobasso 2 gennaio 2003, in Riv. giur. Molise e Sannio, 2003, fasc. 1, 51; App. Genova 31 ottobre 2002, in Orient. giur. lav., 2003, I, 568; Trib. Massa Carrara 16 dicembre 1997, in Riv. giur. circol. trasp., 2000, 122; Trib. Latina 13 marzo 1997, ivi, 1998, 508; Trib. Bologna 25 ottobre 1994, in Dir. econ. assic., 1995, 577; App. Cagliari, 25 maggio 1994, in Riv. giur. sarda, 1995, 354; App. Napoli 17 settembre 1993, ivi, 1994, 326; Trib. Milano 4 giugno 1990, in Riv. giur. circol. trasp., 1990, 786), e quanti invece la affermavano (Trib. Venezia 15 giugno 2009, in Danno e resp., 2010, 1013; Trib. Bari 20 marzo 2004, in Diritto & Giustizia, 2004, fasc. 28, 81; Trib. Civitavecchia 26 febbraio 1996, in Riv. giur. circol. trasp., 1996, 961; Trib. Monza 3 luglio 1989, in Dir. e prat. assic., 1989, 861). Le (poche) decisioni di merito che ammettevano la risarcibilità jure haereditario del danno da perdita della vita facevano ricorso tuttavia ad argomenti non coincidenti. Le decisioni più remote (ad es. Trib. Civitavecchia 26 febbraio 1996, cit.) facevano leva sulla nozione di “danno biologico”: la perdita della vita, si diceva, costituisce pur sempre una forma di lesione della salute: con la conclusione che “alla luce di una interpretazione non restrittiva dell’articolo 2043 del codice civile e dell’articolo 32 della Costituzione, il contenuto del risarcimento del cosiddetto danno biologico deve essere inteso quale presidio non solo risarcitorio ma anche sanzionatorio del diritto alla vita. [Infatti] il diritto alla vita viene a costituire, in base al combinato disposto dell’articolo 32 Cost. e 2043 cod. civ., non oggetto di un riferimento programmatico a copertura costituzionale, ma posizione soggettiva perfetta tutelata nell’ambito dei rapporti interprivati, che [continua ..]
Che la “perdita della vita” costituisse un danno per il defunto, e che gli eredi di questo potessero pretenderne il risarcimento jure haereditario, fu opinione che ha diviso anche la dottrina. Impossibile cosa sarebbe, tuttavia, riassumere in questa sede le mille sfaccettature, le infinite distinzioni, le innumerevoli argomentazioni differenti con cui gli autori favorevoli e contrari alla risarcibilità del danno da perdita della vita hanno sostenuto le loro opinioni. Mi limiterò a ricordare come queste opinioni possano essere divise in tre gruppi. Il primo gruppo comprende gli autori che ammettono la risarcibilità del danno da perdita della vita. Questi autori, pur con molte differenza, alla fine finiscono per ricorrere sempre a tre argomenti “forti”: a) l’argomento “dell’a fortiori”: se viene risarcita la lesione della salute anche minima, si afferma, a fortiori dovrà essere risarcita una lesione ben più grave come la morte; b) l’argomento “sanzionatorio”: con questo argomento si afferma che il risarcimento del danno serve anche a punire l’offensore, non solo a ristorare la vittima. Pertanto la circostanza che il risarcimento non possa essere accordato alla vittima, ma debba necessariamente essere elargito all’erede di questa (come appunto nel caso di danno da perdita della vita) non basta ad escludere la risarcibilità del pregiudizio. Secondo quest’orientamento, dunque, “il risarcimento dei danni (...) non può essere certo inteso come finalizzato esclusivamente a fornire un rimedio a situazioni ormai compromesse. Attraverso il risarcimento dei danni la responsabilità civile attua e rafforza la sua funzione di prevenzione ed autoregolamentazione del comportamento dei consociati: generare un danno non conviene, perché la condotta lesiva obbliga al risarcimento, chi rompe paga. Se dunque è vero che il risarcimento del danno svolge altre funzioni oltre quella squisitamente riparatoria e, talvolta, può anche arrivare a costituire un punishment privato, è altresì evidente che anche per la perdita della vita – la più grave che una persona possa subire – è ben possibile ipotizzare la liquidazione di un danno” (sono parole di P.G. MONATERI-M. [continua ..]
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto i contrasti di cui è appena dato sommariamente conto negando la risarcibilità del danno da perdita della vita. Per giungere a questa conclusione, le Sezioni Unite usano sette argomenti: il primo per sostenere la propria conclusione, gli altri sei per confutare le argomentazioni usate a sostegno della tesi della risarcibilità del danno da perdita della vita. Per escludere la risarcibilità del danno da perdita della vita, le Sezioni Unite ricorrono ad un argomento inoppugnabile: per acquistare un diritto è necessaria l’esistenza d’un soggetto. Perché il diritto al risarcimento del danno da perdita della vita nasca, è necessario che colui che deve acquistarlo muoia. Ma se il titolare del diritto muore, non c’è più alcun soggetto capace di acquistare quel diritto. Delle due, dunque, l’una: se la vittima dell’illecito è in vita, non è ipotizzabile alcun danno da perdita della vita; se la vittima muore, manca un soggetto che possa divenire titolare del credito al risarcimento del danno da perdita della vita. È dunque una autentica aporìa logica – questo il succo del discorso delle Sezioni Unite – pretendere il risarcimento del danno da perdita della vita, perché se c’è il credito manca il creditore, mentre se c’è il creditore manca il credito. Insomma, credito e creditore costituiscono i due elementi – soggettivo ed oggettivo – dell’obbligazione. Se uno manca, non è nemmeno concepibile una obbligazione di diritto civile. E nel caso di danno da morte, per quanto detto, il credito sorge quando il creditore muore: dunque di questa pretesa obbligazione risarcitoria prima della morte manca l’oggetto, e dopo la morte manca il soggetto. Le Sezioni Unite hanno avuto cura di soggiungere che la conclusione appena esposta non confligge col dettato costituzionale: sia perché l’art. 2059 c.c. consente ai congiunti della vittima di ottenere il pieno risarcimento dei danni patiti jure proprio, sia perché sulla questione già si pronunciò la Corte costituzionale nel 1994, escludendo come già detto che l’irrisarcibilità del danno da perdita della vita confligga con gli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Dopo avere indicato la ragione per la quale il danno da perdita della vita è irrisarcibile, le Sezioni Unite hanno proceduto ad una demolizione sistematica degli argomenti spesi, per sostenere la tesi contraria, da Cass. n. 1361/2014, cit. Questi argomenti sono sei, e conviene ripercorrerli brevemente sia per il loro interesse teorico, sia per le loro importanti conseguenze pratiche. In primo luogo, le Sezioni Unite affermano ore rotundo che quando si interpreta la legge è meglio mettere da parte la “coscienza sociale” (§ 3.3 dei “Motivi della decisione”). Il richiamo alla coscienza sociale, come si ricorderà, era stato invocato da Cass. n. 1361/2014 per affermare che l’irrisarcibilità del danno da perdita della vita sarebbe incoerente col comune sentire. Molto opportunamente, le Sezioni Unite ribadiscono ora quella che dovrebbe essere una realtà lapalissiana, e cioè che la “coscienza sociale”, ammesso che possa essere individuata e che sia una sola, può guidare al massimo il legislatore, non certo l’interprete. È un richiamo opportuno, a fronte di non poche decisioni, di legittimità e di merito, che con l’usbergo del richiamo alla “coscienza sociale” finiscono per coonestare decisioni talora singolari, talaltra apertamente contrastanti col diritto positivo. Insomma: per le Sezioni Unite il giudice non è un demiurgo che si fa interprete dei desiderata dell’opinione pubblica. I criteri dell’interpretazione sono quelli di sempre: letterale, sistematico, storico, finalistico. A questi solo si deve fare ricorso per interpretare la legge, e la “indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale non è criterio che possa legittimamente guidare l’attività dell’interprete del diritto positivo”. In secondo luogo, le Sezioni Unite hanno negato che gli interessi supremi della persona, come quello alla vita, debbano essere tutelati dall’ordinamento immancabilmente con la previsione della risarcibilità. L’uccisione d’una persona – osservano le Sezioni Unite – è condotta che l’ordinamento previene con la minaccia della sanzione penale: e tanto basta per ritenere “tutelato” dall’ordinamento il diritto alla vita. La [continua ..]
La sentenza n. 15350/2015 delle Sezioni Unite è una decisione che non crea problemi, ma li risolve. E non mi riferisco soltanto agli ovvi e pur importanti problemi pratici: cosa domandare in giudizio nel caso di morte d’un congiunto, come quantificare il danno, come difendersi da questo tipo di pretese. La sentenza ha un valore aggiunto rappresentato dalla (speriamo) definitiva messa all’indice delle opinioni dottrinarie da cui la tesi della risarcibilità del danno da perdita della vita era sottesa: opinioni bizantine, eteroclite, inaccettabili. La sentenza della Corte di Cassazione n. 1361/2014, che come s’è visto aveva affermato la risarcibilità del danno da perdita della vita, e le decisioni di merito che affermarono in precedenza il medesimo principio, direttamente o indirettamente avevano una matrice ideologica comune: l’opinione secondo cui le categorie giuridiche sarebbero roba da ferrivecchi, ed il giurista dinanzi a problemi nuovi non deve lesinare coraggio nel forgiare nuove categorie. È l’opinione di N. LIPARI, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, passim, sviluppata in N. LIPARI, Danno tanatologico e categorie giuridiche, in Riv. crit. dir. priv., 2012, 523 ss., poi ripresa e condivisa da L.A. SCARANO, La quantificazione del danno non patrimoniale, Torino, 2013, 75 ss. Ovviamente non è questa la sede per affrontare problemi formidabili come quello della funzione delle categorie giuridiche e del ruolo dell’interprete rispetto ad esse. Nondimeno, nei limiti consentiti dal presente scritto, sarà opportuno mettere in evidenza come siano proprio teorie come quella in esame ad aumentare l’entropia dell’ordinamento, favorire i contrasti, rendere imprevedibili le decisioni giudiziarie. Secondo la tesi formulata dal Lipari negli scritti appena ricordati, le categorie giuridiche non esistono in rerum natura e non sono verità oggettive. Essendo create dal pensiero, non sono immutabili, e l’interprete non deve avere paura di abbandonarle e di crearne di nuove, dinanzi a problemi giuridici nuovi. È una tesi che non esce dall’alternativa: o conduce all’ovvio, o conduce all’eversione. Dire che le categorie giuridiche non sono vincolanti è una ovvietà: basti pensare alla [continua ..]
La sentenza n. 15350/2015 delle Sezioni Unite, di cui qui si discorre, ha toccato obiter dictum – non facendo parte dell’oggetto del decidere – il tema del danno patito dalla vittima primaria nell’intervallo tra le lesioni e la morte, ed il cui risarcimento si trasmette pacificamente jure haereditario agli eredi. Si tratta di questione sulla quale in poche battute le Sezioni Unite hanno ribadito come si possono forse registrare nella giurisprudenza di legittimità contrasti sulle definizioni, ma non sul merito della questione. Il danno di cui si discorre ha formato infatti oggetto di molte definizioni, distinzioni e sottodistinzioni: si è parlato di danno tanatologico, terminale e catastrofale. Nondimeno, se si passa ad esaminare le fattispecie concrete portate all’esame della Suprema Corte, ci si avvede che con queste tre definizioni si designa l’ipotesi in cui una persona, vittima di lesioni personali, muoia a causa di esse dopo un periodo di tempo più o meno lungo. Ricorrendo tale ipotesi, per la giurisprudenza assolutamente maggioritaria della Corte di Cassazione dovranno applicarsi i seguenti princìpi: a) la vittima patisce un danno da lesione della salute o danno biologico, il cui diritto al risarcimento viene, in conseguenza della morte, trasmesso agli eredi; b) il danno biologico di chi sia sopravvissuto quodam tempore alle lesioni, e poi sia deceduto a causa di esse, è necessariamente un danno biologico temporaneo: l’invalidità permanente, infatti, presuppone che sia avvenuta la guarigione clinica, mentre nel casi di lesioni letali la guarigione non può avvenire; c) il danno biologico di cui si discorre va liquidato con equo apprezzamento delle circostanze del caso, e dunque anche in misura superiore a quella standard, per tenere conto della peculiarità del caso; d) il danno biologico di cui si discorre è dovuto tanto nell’ipotesi in cui la vittima sia rimasta cosciente, quanto nel caso contrario: ed infatti il danno risarcimento del danno biologico è dovuto a prescindere dalla circostanza che la vittima si sia avveduta di essere temporaneamente invalida. Accanto e in aggiunta al danno biologico in sé considerato, la vittima di lesioni che sopravviva quodam tempore, e poi muoia a causa delle lesioni, può patire un [continua ..]